Lo sviluppo tecnologico mette sempre più a dura prova il rapporto tra le generazioni. Là dove i bambini ne sanno più degli adulti, c’è ancora qualcosa che i padri possono insegnare ai propri figli?
Quanti discorsi rivolti ai nostri figli sono cominciati così: «ai tempi miei…», «quando avevo la tua età…»; e quanti ne abbiamo sentiti, rivolti da nostro padre a noi?
C’era sempre in ballo una questione di comportamento: abitudini cambiate, luoghi scomparsi, altri linguaggi. E, insieme a questo elemento nostalgico, quello di un valore che ‘adesso’ non c’è più, o non ha l’importanza di una volta: il rispetto, il denaro, il tempo libero, la mamma.
Questi commenti, per quanto nostalgici, erano però nel segno di una continuità: il mondo è cambiato, figlio mio, e cambia in fretta – però io, tuo padre, sono ancora buono a qualcosa, perché quel mondo è rimasto lo stesso. Anche se la gerarchia dei valori può essere cambiata, ‘l’essenza delle cose’ no.
Il tempo e lo spazio
Non credo che per me la situazione sia più la stessa. Io vedo i miei due figli letteralmente immersi in un altro mondo, rispetto al mio. Quello che è cambiato non sono tanto i valori e i linguaggi, ma due dei fondamenti della percezione, dello stare al mondo: il tempo e lo spazio. Che ovviamente, scombussolano tutto il sistema dei valori e dei linguaggi.
Qualitativamente, il tempo scorre in un altro modo rispetto alla mia infanzia. La velocità degli stimoli sensoriali e intellettivi è tremendamente accelerata rispetto ai miei giochi e alle mie giornate di quando avevo cinque, otto, dodici anni. E questa accelerazione non è più misurabile sulla stessa scala: la mia impressione è che la differenza tra la mia epoca e quella dei miei figli non sia quella tra la velocità della carrozza e quella dell’automobile, ma tra quella dell’automobile e la velocità della luce. E lo spazio s’è fatto più piccolo, più veloce da raggiungere e più facile da conoscere.
L’enorme e velocissimo cumulo di informazioni che può raggiungere i miei figli va assorbito e filtrato con mezzi e strategie che per me sono del tutto nuove – non sono la versione attuale di qualcosa che io già affrontavo. Tutti questi stimoli promettono una serie di possibilità, per loro, che alla mia età erano letteralmente fuori dal pensabile e dal sensibile. Il senso di compattezza e vicinanza del mondo dovuto non solo e non tanto all’esistenza del web, ma alle conseguenze della sua esistenza per tutti gli altri aspetti del quotidiano, è quanto si vuole racchiuso nella metafora del “villaggio globale” – rimane da fare esperienza di che cosa può voler dire. Una cosa è certa: vuol dire che sia io che mio figlio siamo del tutto impreparati. Io non sono cresciuto in un “villaggio globale”, e lui non ha altra scelta.
A cosa può ancorare un papà il suo rapporto con figli e figlie iperstimolati, ai quali la tecnologia spalanca mondi e velocità impensate? Quella diversità epocale che prima era per me una chiacchiera o un aggeggio nuovo da provare, ma che adesso è incarnata in un bambino, in una bambina, in un ragazzo, in una ragazza nati in questo secolo, come l’affronto? Non sono un amico, né un maestro, né un “esperto”. Sono un padre.
Posso solo mantenere più alta possibile la qualità del mio rapporto umano con loro. Spiegare un divieto con onestà, argomentare un “no” con franchezza, laddove è necessario impedire un accesso; aiutare e sostenere davanti a qualcosa di “brutto”, che non è possibile evitare di sapere; aumentare la loro autostima scambiandoci esperienze e competenze davanti a tecnologie sì divertenti, ma anche impegnative.
«Quando avevo la tua età… non pensavo che avrei faticato tanto a capire certe cose. Ma neanche che ne sarei stato tanto felice».