Siamo tolleranti o inclusivi? Pensiamo in termini di supporto o di stereotipi? Misuriamo insieme il nostro livello di razzismo usando la scala della psicologa canadese Dorothy Riddle
Ci sono tante sfumature nello spettro che va dal razzismo all’eguaglianza.
Un po’ è facile rendersene conto, se cominciamo a far mente locale a tutti i discorsi che iniziano con la classica “non sono razzista, MA…”. Quello che non è invece facile è mettere bene a fuoco dove tutte quelle considerazioni che vengono dopo il “MA…” devono essere collocate.
Se in un contesto di condivisione in una collettività questo è importantissimo, immaginate quanto sia fondamentale in un contesto di servizio, inerentemente multietnica e che deve assicurare attenzione e cura ad ogni singolo individuo afferente al servizio stesso. Un contesto come una Università, per esempio. In tanti anni di lavoro in UK ho imparato che tutto questo non può essere affidato al caso e al buon senso dei singoli, ma ci vuole metodo e ci vuole, soprattutto, informazione e conoscenza.
L’ufficio dell’Università che si occupa di Diversity and Equality (che a proposito è l’accezione più corretta di Pari Opportunità, non si vuole soltanto focalizzare sulle opportunità o sul trattamento, ma su come la comunità viene arricchita proprio dalle diversità dei suoi componenti) fornisce del materiale formativo per docenti e staff in forma di corsi, che devono essere obbligatoriamente seguiti da tutti ma specialmente da chi ha più occasione di impattare sulla vita di studenti e colleghi, nel famoso spirito che da grandi poteri derivano grandi responsabilità (cit. Uomo Ragno).
Fra questo materiale, vorrei condividere con voi in particolare una “scala”, perché a me ha fatto pensare tantissimo, e ha messo molto ordine fra tutti i miei “non sono razzista MA…”. E’ una scala basata su quella di Dorothy Riddle, una psicologa canadese, che ne ha elaborato la prima versione relativa all’omofobia, ma l’estensione a tutti i tipi di “ismi” è stata usata in diverse istituzioni e contesti. È una scala da 1 a 8, dove i primi 4 scalini sono comportamenti negativi, quindi razzisti, e gli ultimi sono positivi.
Siete curiosi di sapere dove ci posizioniamo in questa scala? Cominciamo allora.
Livello 1. Ripulsione.
L’altra etnia è vista come “fuori dal normale”, e allontanata. Violenza o oppressione contro l’etnia è scusata/giustificata per la salvaguardia della società.
Certo si spera che questa categoria sia ormai superata.
Vero?
Ma ci sono anche qui molti modi di intendere questo odio o ripulsione. Incluso il blando “non fidarsi”, essere attenti ai comportamenti, sospettare, accusare. Se ci avvisano di un caso di pidocchi in classe, pensiamo immediatamente ai capelli ricci e crespi della bimba straniera? Chi è il ladro di merendine? Mandiamo i nostri figli a casa della famiglia straniera a giocare? Insomma, tutte le volte che presumiamo qualcosa di negativo, e ci comportiamo di conseguenza, sulla base dell’appartenenza ad una categoria (etnia, ma anche inclinazione sessuale, eh?) stiamo praticamente regredendo a livello uno, per quanto non vogliamo ammetterlo, per quanto facciamo precedere la nostra affermazione con il “non sono, MA…”.
Livello 2. Compassione.
L’altro è visto come più debole, incapace, bisognoso di aiuto. Inferiore insomma.
Detto così anche questo pare un livello estremo, vero?
Forse.
Ma compassione vuol dire a volte anche uno sforzo di “occidentalizzazione”, di conversione, di persuasione esplicita o implicita ad adottare usi e costumi non propri. O, ad esempio, un sostenere il celibato per gli omosessuali. O che le donne non dovrebbero frequentare certi ambienti, o vestirsi in un certo modo.
Livello 3. Tolleranza.
Sorpresi di trovare questa parola soltanto qui nella scala? Si predica sempre la “tolleranza”. Ma tolleranza non è un sentimento positivo, ed è sicuramente un sentimento asimmetrico: io, che sono dentro, parte integrante della comunità, tollero te, che sei fuori, e ti faccio entrare.
Una persona che si proclami non razzista non può essere semplicemente tollerante: questo implicherebbe che ci sia “qualcosa” da tollerare, qualcosa da dover, magari con sforzo, accettare. La tolleranza è quella cosa che ci fa dire “va bene che vengano, basta che non lavorino”, o “va bene che pratichino la loro religione, basta che non lo facciano in pubblico”. Oppure, nel caso degli omosessuali, “non importa quello che fanno a letto, basta che non ce lo sbattano davanti”. E’ un ulteriore livello di quel “non sono, MA…”, insomma.
Interessante caso particolare di tolleranza è quella di chi dice “non importa orientamento sessuale, credo, o etnia, io tratto tutti allo stesso modo, per me sono solo persone”. Siete stupiti quanto me che questo comportamento non sia più in alto nella scala? Ma è perché è anche questo un affossare, un negare, un non voler guardare negli occhi l’altro: pretendereste dai vostri più piccoli un comportamento da adulti? Dai vostri anziani uno scatto felino? L’uguaglianza arida e ligia alla regola non è amorevole, non è comprensiva, non è accogliente. Non è inclusiva.
Livello 4. Accettazione stereotipata.
Un po’ tutto il razzismo, o ogni “ismo”, è fondamentalmente uno stereotipo, ma questo livello qui vuole puntare l’attenzione su quegli atteggiamenti, non necessariamente negativi, ma spesso paternalistici che si rivolgono all’individuo in quanto parte di un gruppo.
Fanno parte di questo livello tutti i vari “I brasiliani sono divertenti”. “I neri sanno ballare”. “I gay hanno gusto nel vestire”.
O anche, in modo più sottile, l’essere affascinati: ricordo una divertentissima serie di spot antirazzisti (perché si può parlare di antirazzismo anche in termini divertenti, eh? Sennò torniamo dritti dritti a livello 2) che vidi tempo fa, basata sul sempre efficace scambio di ruoli. Una ragazza nera diceva ad esempio all’amica bianca “aahhh, che meraviglia i tuoi capelli, ho sempre adorato i capelli dei bianchi, posso toccarli?”. O il ragazzo indiano diceva all’amico bianco “guarda, io sono assolutamente affascinato dalla vostra spiritualità, ho la casa tappezzata da crocifissi e santini, tutto, dai tappeti alle tende alla carta da parati, trooooppo figo!”.
In questa categoria rientrano anche quelli che hanno l’amico del cuore: l’amico nero, l’amico indù, l’amico musulmano, l’amico gay. Amico o amica ovviamente. Non che l’amicizia non sia sincera, anzi, l’affetto è profondissimo, ma a volte diventa quasi uno scudo, l’amico diventa il distintivo da sfoggiare per dimostrare anche a se stessi il proprio genuino antirazzismo. Infatti, spesso questo amico è uno solo, come se si fosse incapaci di considerare l’idea di averne due, di amici neri o musulmani o gay o quant’altro.
Fino a questo punto siamo ancora nella parte negativa della scala, abbiamo ancora un certo sbilanciamento nel modo in cui pensiamo all’altro rispetto a noi, una subordinazione di fondo. Vediamo ora invece come possiamo migliorarci, cosa ci si aspetta da noi se vogliamo essere davvero antirazzisti.
Livello 5. Supporto.
In questa categoria rientra chi si interroga intimamente. Chi affronta i propri pregiudizi. Chi, anche se a livello personale riconosce di avere riserve a volte verso l’altro, crede profondamente che questi debba avere accesso a tutta la sfera completa di opportunità, diritti e privilegi offerti dalla società.
Livello 6. Ammirazione.
In questa categoria rientra chi si rende conto delle difficoltà che l’altro deve affrontare quotidianamente solo per la sua appartenenza ad una etnia, religione, sesso o genere. Chi è ben conscio dei privilegi di cui gode, e che sono negati all’altro, e che è attento, con il suo comportamento, a non ostentare o sfruttare questi privilegi.
Livello 7. Apprezzamento.
Apprezzare significa valorizzare la diversità, e quindi valorizzare tutti coloro che contribuiscono a rendere la società variegata. Significa cercare con onestà di capire la diversità, interrogarsi sulle differenze e il loro significato, non nascondendosi dietro il mito dell’uguaglianza.
Livello 8. Cura.
Questo, secondo la scala di Dorothy Riddle, è il punto più alto. Essere totalmente antirazzisti, o antiomofobi, o antisessisti, significa essere convinti che la società sarebbe ben più povera se non ci fosse, e non fosse visibile e fortemente presente, l’altro, con tutta la sua ricchezza di esperienza e di cultura. Significa auspicarsi di essere sempre più diversi, e attivamente fare in modo che questo avvenga, con il proprio comportamento e cercando di cambiare gli altri. Significa rendersi conto di dover unire tutti le forze, non può essere un lavoro unilaterale di salvataggio da parte di alcuni, o di lotta per le conquiste da parte degli altri, perché gli obiettivi sono comuni, e sono raggiungibili solo se si lavora tutti insieme.
Ecco, questo è parte di quello che ho imparato nel mio corso di Diversità e Uguaglianza. Non siete ispirati anche voi da questa visione? Non vogliamo tutti cercare di raggiungere il Livello 8, per noi e i nostri bambini?
“Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo” (Gandhi).
(foto creata da Libby Levi per opensource.com e utilizzata in licenza Creative Common)
Sai cosa, purtroppo il problema è “chi educa gli educatori”? Perché io vivo in estrema provincia e so che gli insegnanti da anni hanno a che fare con bambini stranieri, ma non è detto che qualcuno li abbia mai educati al superamento della semplice tolleranza…voglio dire, gli insegnanti sono umani, hanno le loro categorie mentali, la loro esperienza di vita e non è detto che siano capaci di andare oltre solo con la forza della buona volontà. Una volta una mia amica un po’ estrema, mi ha detto che la scuola educa a fare qualcosa e a essere in un modo che a lei non piace, a dei valori sociali che spesso non condivide, a un’obbedienza e a delle categorie che lei non vorrebbe per sua figlia. E io non ho saputo darle torto, ma non conosco un’alternativa.
Per quanto riguarda la tv, non ce l’ho, non dico nulla 🙂
Ma infatti Polly, siamo tutti un po’ mescolati fra le categorie, la conoscenza dell’altro è fondamentale per capirlo, e di molte culture in effetti non conosciamo molto. Per alcune non è nostra responsabilità, ma per altre un po’ si: anche se personalmente non conosciamo Cinesi, è però vero che la comunità Cinese in Italia è molto grande, trovo estremamente triste, e poco lungimirante da parte di chi ha il compito di informare ed educare, che non ne conosciamo molto, o peggio, che accettiamo ancora senza battere ciglio anche in contesti pubblici (come la televisione) le barzellette con gli occhi tirati indietro e la L al posto della R. Per dire, a volte basta poco per saltare di un gradino 🙂
Adoro questo post, grazie.
Credo però che non ci possiamo collocare a un livello solo di questa scala. Io per esempio mi sento del tutto anti-omofoba però al contempo certe categorie di persone diverse da me e di cui non conosco nessun rappresentante (che ne so, “i cinesi”), tendo a stereotiparle, vuoi per il linguaggio (la parola “cinese” ha una precisa connotazione: se non conosco nessun cinese posso essere influenzata dal linguaggio e pensare che tutti i cinesi lavorano molto, per esempio), o dal contesto.
Vero è anche che le culture hanno dei tratti comuni (il confucianesimo vs il cristianesimo, per esempio) che influenzano il nostro stesso comportamento (io per esempio sono atea ma la mia cultura personale è chiaramente cattolica, europea, a tratti monoteista), e ci fanno vedere gli altri in un dato modo: certo, lo so che le persone non sono tutte uguali, però in certi casi parto con un pregiudizio che con tutta la buona volontà non sono in grado di affossare, per comodità di pensiero. Il pensiero è fatto a scatole e non tutte le volte che ragiono metto in dubbio le mie scatole (molte volte sì eh, ma non sempre sennò impazzirei).