A condizione che…

Parlare di maternità accende gli animi ma non bisogna stupirsene: per secoli la donna ha avuto un ruolo prevalentemente riproduttivo, esiteva per i figli. Oggi che rivendica un proprio spazio nel mondo ogni coordinata è stata rimessa in discussione.

Nessuno ha il coraggio di ammetterlo ma la maternità è malata. Colpa dell’emancipazione dicono alcuni, invece no, è il contrario: l’emancipazione non c’entra, ma la sua demonizzazione sì.

Alla fine del XIX secolo, la mia bisnonna si presentò dal padre (un conte) e gli chiese il permesso di ottenere il diploma per diventare maestra. Lui le consentì di studiare, a condizione che non avrebbe mai usato il diploma fin tanto a che fosse stato ancora vivo. Poteva accettare che la figlia studiasse, ma non che la concessione inficiasse la sua persona, quale rappresentante della gerarchia sociale e dello status patriarcale. Da quel momento in poi, come lui, la società italiana, ad ogni passo dell’emancipazione femminile avrebbe anteposto un a condizione che.

Il perché di una libertà condizionata

Fin dal principio la libertà concessa alle donne è stata condizionata: un dare e un trattenere, come si trattasse di un carcerato sotto sorveglianza.  Ma il condizionamento non era dovuto, come spesso è stato interpretato, ad un’opposizione al lavoro femminile. Da secoli le donne dei ceti inferiori lavoravano. La società non si era mai opposta, in quanto il loro lavoro si inseriva nella struttura sociale. Era un lavoro di dipendenza che non liberava la donna ma anzi la legava ancora più strettamente, imponendole doveri estesi e una sudditanza tanto ai datori quanto ai mariti.

Quando però, alla fine del XIX secolo le donne borghesi e nobili rivendicarono l’accesso al mondo professionale, il patriarcato tremò. La differenza era sostanziale. In ceti in cui il lavoro femminile non era necessario veniva a rappresentare uno svincolo. Si era davanti ad un effetto domino: concedere a donne ben educate il privilegio di una vita professionale significava svincolarle dalla dipendenza economica del padre o del marito e consentire loro non solo scelta ma libertà di movimento. Ciò era in netto contrasto con il radicato concetto di donna come proprietà, sempre sottointeso e fondamentale al  controllo biologico. Un donna libera può scegliere con chi e se unirsi, con chi e se avere figli; una donna libera priva l’uomo non tanto della supremazia sociale ma di quella biologica, estromettendolo di fatto dal più imprescindibile dei poteri: quello dell’affermare il diritto alla propria trasmissione genetica. Da quel punto di partenza ne sarebbero seguite lotte acerrime contro la contraccezione prima e contro l’aborto più avanti, ciascuna di esse sintomatica del tentativo di mantenere un controllo sul corpo della donna e dunque sulla procreazione.

Dietro ciascun dogma religioso vi è il medesimo concetto, espresso tra un detto (salvaguardia della vita) e un taciuto (controllo di trasmissione). Lo stupro allora non è che un peccato veniale, spesso giustificato, mentre una donna violentata che decide di abortire commette un peccato mortale. È un atteggiamento che esplicitando il diritto alla trasmissione, impone alla donna il dovere di sottomettersi a quel diritto, come se – privato di esso – l’uomo perdesse una sua ragione di essere.

All’alba dell’emancipazione femminile la società era ancora lontana da un ripensamento dei ruoli e dei valori che dissociasse il pensiero della liberazione della donna a quello di uno svilimento dell’uomo, né oltre un secolo dopo ciascun passaggio sarebbe stato pienamente risolto, ma lo scarto generazionale era già evidente.  La generazione della mia bisnonna, prima tra tutte, rivendicava non solo il diritto all’indipendenza, ma anche quello alla scelta se diventare madri o meno. Era pericoloso e andava ostacolato. Quell’avanzamento monco, avrebbe generato così uno squilibrio consumato nel silenzio, ma che si sarebbe manifestato attraverso reazioni passive, quali l’astensione dal matrimonio o l’intrappolamento in esso, il rifiuto di avere figli o in forme di nevrosi legate alla maternità, soprattutto quando, durante il fascismo, le donne sarebbero state culturalmente riportate indietro di diversi decenni.

La maternità come ostacolo e prigionia

È l’inizio di un passaggio epocale da cui prende avvio l’idea di maternità non come fonte di realizzazione ma come ostacolo e prigionia: là dove diventare madri significa tagliare i ponti con le aspirazioni. Un’idea che la società non avrebbe fatto nulla per cambiare (contrapponendo il mussoliniano intestardimento procreativo), ma che si sarebbe mantenuta viva fino ad oggi, in cui la parità effettiva (intesa come socio-economica, opportunità lavorative e nel rapporto di coppia) esiste prevalentemente per le donne che hanno scelto di non avere figli. L’esito di quel a condizione che, frutto di negazione e dunque mai risolto, che avrebbe avuto come unica opposizione possibile proprio il rifiuto alla procreazione. L’unico effettivo potere che restava alla donna.

La crisi della maternità separa: dà origine ad un disagio dilagante, interpretato da ciascuna in modo spesso antitetico, talvolta assolutista. Vi è l’area più saldamente femminista che esprime malori e nevrosi, alla ricerca di reinterpretare il ruolo, e l’ala conservatrice, tesa ad un ritorno alla maternità assoluta e bucolica, una specie di arcadia mai esistita se non nelle rappresentzioni artistiche o nei testi sacri.

Il movimento delle madri 2.0

Ricordo che quando nel primo decennio del 2000, mi unii insieme a molte altre al movimento delle madri 2.0 fu una rivoluzione. Per la prima volta le donne parlavano apertamente dei loro disagi, creando una rappresentazione della maternità fino a quel momento inedita: una che affiancava alla dedizione le insidie e le nevrosi. Inedito era il concetto che la maternità non costituisse appagamento assoluto, in contrasto con l’aspettativa che invece la voleva come apice esistenziale. Le problematiche emergevano: estraniazione, isolamento, rinunce, incomprensioni coniugali, e un senso di vuoto che spronava le donne a confrontarsi e  spesso a reinventarsi dopo essere state tagliate fuori dal mondo del lavoro e in taluni casi anche dalla vita sociale. Donne libere, imprigionate dalla maternità. L’attenzione della stampa al ‘fenomeno’ era sintomatica: le madri non erano felici, come era possibile?

Il dualismo inevitabile

Per le donne della nostra società il problema se avere figli o meno è determinante e non dovrebbe esserlo. Per ciascuna di noi si è trattato di un incongruo tentativo di affermazione dell’individualità oltre le mura domestiche pur nel desiderio di costruire una famiglia. Se una società comunica il concetto che se una donna vuole la parità non deve avere figli non è un malore temporaneo, è un cancro. Genera decisioni conflittuali, determinate da binomi imprescindibili: lavoro/casa, carriera/maternità, piacere/dovere, come se il lavoro fosse una forma di appagamento personale e non un’esigenza economica o espressione di un talento. D’altra parte è un conflitto dal quale non si può sfuggire perché di esso è permeato ogni substrato sociale; un dualismo contro il quale nessun uomo deve mai scontrarsi. Sono i messaggi pubblicitari uno dei maggiori indicatori di una percezione culturale radicata. Quale pubblicità presenta un uomo intento a destreggiarsi tra lavoro e casa, cura dei figli e carriera? Quale uomo deve dimostrare di essere Superman per giustificare il proprio diritto al lavoro come sancito dalla costituzione? Madre perfetta e  moglie perfetta. Oppure una superdonna manager di azienda che trova sempre il tempo di accudire i figli, occuparsi della casa e prendersi cura del marito. Casalinga o Wonderwoman. Mentre nella realtà la maggioranza delle donne non sono né l’una né l’altra: faticano, rinunciano, crollano, soffrono di depressione, si separano e talvolta vengono ammazzate quando lo fanno.

L’estremo sacrificio

L’idea di maternità come ‘sacrificio’ invece di attenuarsi con l’emancipazione si è acuita. Da lì le donne hanno preso ad azzuffarsi: la buona madre è quella che sacrifica tutto, mentre chi non è pronta al sacrificio è egoista e manchevole. Ma vi è una differenza sostanziale tra quella che si può definire ‘dedizione’, intesa come cura e scelta di opzioni da cui tutti traggano beneficio, e il concetto di ‘sacrificio’ unilaterale. L’ultimo figlio di quel a condizione che. Allora va bene che la donna lavori, a condizione che si prenda cura dei figli e del marito; va bene che faccia carriera a condizione che non intralci col suo ruolo di moglie e madre; va bene che sia indipendente a condizione che non faccia mai mancare nulla a nessuno. Dietro ogni avanzamento, il retaggio rimane: la buona madre è quella il cui compito primario è quello di essere la regina della casa. È un messaggio talvolta palese ma più spesso subliminale, causa di continui dissidi interiori e sensi di colpa.

La generazione delle donne nate tra gli anni ’60 e ’70, figlia del boom di natalità è anche quella responsabile del suo crollo. Tra le mie colleghe di università sono tra le poche ad avere scelto di avere figli, non l’ho rimpianto, ma il prezzo è stato alto, troppo alto perché alle donne delle generazioni successive si possa continuare a chiederlo: lavori part-time, periodi di disoccupazione, contratti a termine, pensioni (se esistenti) irrisorie. Quando si parla di crisi economica e del lavoro, si parla soprattutto di donne e in particolare di madri. Sono loro il prezzo di una società ancora profondamente ancorata al concetto che la madre debba stare a casa e/o sacrificare tutto per i figli, cioè che sia libera a condizione che goda d’indipendenza economica limitata e scarso peso sociale.

Dovremmo discutere di questo, non di allattamento. Discutere del fatto che se le donne italiane scelgono di non fare figli o farne pochi, il fattore economico non è che un riflesso di un malessere più ampio e radicato: quello del timore dell’esclusione sociale.

– post di Alessandra Libutti

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