Se si potesse fare una statistica della domanda più frequente nelle conversazioni al telefono con i miei, o dei miei ricordi delle conversazioni quotidiane mattutine di mia madre con la sua, sarebbe senz’altro il classico “che ti mangi oggi?” (o “che cucini oggi?” in alternativa). Oppure “che avete mangiato?” se la conversazione avviene verso sera, momento in cui, nel mio caso almeno, si sfocia spesso in toni leggermente inquisitivi, del tipo:
- Che avete mangiato?
- [questo o quello (riempire a piacere)]
- E di primo???
- …
- Ma un piatto di pasta lo volete dare a ‘ste creature che devono crescere?
Le mie vacanze italiane in casa dei familiari si dipanano, nelle prime ore della giornata, intorno al “che cuciniamo”, fra una chiacchiera e l’altra, e solo quando questo nodo è risolto, intorno alle 11 massimo, si percepisce il sollievo proveniente da una decisione fondamentale finalmente presa.
Il “che cuciniamo” raggiunge poi il parossismo quando si sa che ci saranno ospiti a casa, e quando appunto andiamo a casa per le vacanze, visto che noi costituiamo il drammatico concentrato di quattro componenti fondamentali, l’essere ospiti, l’essere figli, l’essere expat (e quindi carenti cronici per definizione di prelibatezze nostrane) e l’essere notoriamente denutriti (noi e quelle povere creature nostre) le vacanze diventano una maratona alimentare per professionisti.
Tutto questo paradigma di pensiero, che mi pareva nell’ordine naturale delle cose una volta, come spesso accade, è stato rivoluzionato dal contatto con culture estere. Quando uno si rende conto che l’attenzione così puntuale e professionale al “cibo come elemento di ospitalità” non deve essere per forza la regola.
Non parlo tanto di inviti, ho partecipato come commensale a cene con i controfiocchi, con ottima conversazione e varie leccornie interessanti, ma proprio il classico “passo da te nel pomeriggio per una chiacchierata”, meno formale e più estemporaneo. Ecco, in queste situazioni, dopo l’iniziale sconcerto, per cui ad una di provenienza mediterranea (la specificità “Sud” credo faccia la differenza, vale molto per culture analoghe, meno magari per la componente più mitteleuropea) pareva sempre di disturbare quando entrava in casa di amici inglesi, non nell’affettazione “che per caso disturbo?”, ma davvero, per via della presunta indifferenza con cui veniva accolta, ho capito appunto che l’indifferenza è negli occhi di chi guarda. Per la mia cultura di provenienza, avere un ospite significava trattare chiunque entrasse in casa come un VIP. Era al centro dell’attenzione, ci si prodigava a farlo sentire importante e ben voluto. E siccome il cibo è parte così integrante della nostra cultura, la più ovvia, la più naturale maniera di farlo sentire importante e ben voluto era… nutrirlo. Più l’ospite viene nutrito, più è ben accolto. Il teorema non fa una grinza. Ergo, l’onta maggiore, e quindi la maggiore reticenza ad aprire la porta di casa all’improvviso, senza essere stati pre-avvertiti di una visita, era che “non ci fosse niente da offrire”. Certo è difficile anche qui quantificare il “niente da offrire” in una casa italiana, ma capitemi.
Ora, supponiamo per un istante di vivere in una galassia lontana lontana in cui il cibo non è l’argomento principale di conversazione, e non è, quindi, la summa di tutte le necessità, ma anche di tutte le piacevolezze, della vita. In questa galassia, come si fa ad accogliere un ospite? Cosa si può fare per farlo sentire bene accetto e contento di essere venuto a trovarci?
Questo concetto, che mi era chiaro ma solo a livello inconscio, è stato messo in parole in maniera sublime da Antal Szerb, un autore ungherese dell’inizio del secolo scorso, purtroppo non noto (mi pare, a giudicare dall’assenza di traduzioni) in Italia, e solo recentemente amato anche qui in UK, grazie anche ad una superba traduzione che ha reso perfettamente quanto bene Szerb era riuscito a cogliere l’essenza e lo spirito britannico nei romanzi ambientati qui. In La leggenda dei Pendragon, dunque, ambientata in Galles, Szerb fa dire al protagonista, interrogato sulla presunta indifferenza mostrata dal Conte di Gwynedd (la regione del Galles che si affaccia su Liverpool, e anche qui il circolo si chiude) nell’accogliere i suoi ospiti, questa verità:
“Oh no, niente affatto. In Inghilterra, come saprai, è una questione di principio che un ospite debba essere accolto con la minore cerimoniosità possibile, per farlo sentire a casa propria.”
Ed ecco quindi che tutto ha molto più senso. Nel paese dell’understatement (un giorno parlerò diffusamente di questo concetto importante), dove l’appellativo di “professor” per i docenti all’università sembra stonato, e gli studenti ti chiamano per nome, dove dare del “lei” non viene proprio contemplato come possibilità dal lessico, tanto importante è la sua assenza, in questo paese, dicevo, enfatizzare, sottolineare, proprio anche “notare” la presenza di qualcuno è quanto di meno piacevole possa esserci, per chi è oggetto delle attenzioni.
Questo per lo stesso identico principio, quello di far sentire a proprio agio, per cui, ad esempio, un banchetto allestito nei minimi dettagli risolve situazioni potenzialmente portatrici di disagio, come i funerali: se non si sa che dire, basta cominciare dalle tartine.
Oppure, per rompere il ghiaccio, basta cominciare dal tè.
Provate ad andare in banca a parlare col servizio clienti, ma anche dal parrucchiere, in una agenzia immobiliare, a volte anche in certi negozi specializzati, di arredamento, o boutique, o anche librerie piccoline, dove il servizio diventa personalizzato e bisogna sedersi e intendersi bene su cosa si desidera, o in ufficio, per un meeting: in tutti i contesti sociali, la tazza di caffè o di tè diventa d’obbligo. Non si comincia niente senza che tutti abbiano tè, caffè e biscotti o dolci davanti: col tazzone in mano ci si sente immediatamente a casa, è il posto dove trovano requie dita nervose, è il punto focale in momenti di imbarazzo, è il luogo dove le conversazioni belle succedono.
Se passate del tempo in UK per un po’, dunque, forse non verrete subissati da profferte alimentari ogni volta che passate da amici, ma sicuramente riceverete una ottima tazza di tè praticamente dappertutto, che conosciate chi ve la offre o meno.
E insieme al tè, avrete anche un pezzetto di loro stessi, la loro totale e indiscussa attenzione.
(foto credits @ garryknight )
Bello. Bello proprio. Non sono convinta che la tazza di te’ veicoli la completa attenzione dell’interlocutore, di certo pero’ serve per affogaci dentro l’imbarazzo, la tensione, i silenzi in cui non sai cosa dire. Ricordo che i primi tempi qui (pure io sono oltre manica), soprattutto a lavoro, mi stupiva tanto questa presenza per me ingombrante e fuori luogo della tazza sul tavolo delle riunioni. Ma… bere e mangiare durante un meeting? Ma siamo matti?! Il cibo da noi – in Italia, o per lo meno nella cultura che ho assorbito io – rimane fuori dal contesto lavorativo, sempre! Ora fa parte pure della mia di routine. Insieme al te’ per accompagnare il pranzo… che scandalo, lo so! Ma solo a lavoro 🙂
Comunque io in 7 anni non avevo mai ancora danno corpo a quella cosa dell’understatement che tu e l’ungherese centrate in pieno. Sopporto proprio male la pomposa ingessata formalita’ e invece questa leggerezza mi fa stare bene.
Bellissimo! Grazie per questa visione diversa di un’altra cultura!
Ricordo una lite con mia madre quando le dissi (indelicata da brava 16 enne) “guarda che i miei amici non sono mica venuti per mangiare”.
Poi si cresce e adesso se vengono ospiti fa piacere coccolarli con qualche cosetta ad hoc, per far capire che si è pensato proprio a loro. Condizionamenti, I guess. Però una tazza di te non manca mai (anche perché fino a ieri non avevo macchinetta del caffè)!
Ti confermo che anche in Catalogna c’è l’ossessione per il cibo, sarà il mediterraneo!