Manager di Me Stessa a conoscerla dà l’idea di una vera tigre… Ma non credo di una “mamma tigre” nel senso che ritroviamo nel libro di Amy Chua, Il ruggito della mamma tigre.
M di MS aveva già scritto sul suo blog una recensione del libro, con una citazione finale un po’ a sorpresa, ma noi le abbiamo chiesto qualcosa di diverso. Una riflessione sul tema della competitività in quel libro, di cui tanto si è parlato alla sua uscita.
E così, grazie alle sue parole, quel libro tanto incredibile, addirittura feroce e avulso dalla nostra sensibilità, sembra avvicinarsi alle nostre domande eterne di genitori. In fondo la felicità dei figli la cerchiamo tutti… poi ognuno sceglie le sue strade.
Non me ne vogliate, ma devo farvi una confessione: a me il libro “Il ruggito della mamma tigre” è piaciuto parecchio.
Non sto dicendo che il mio ménage domestico assomiglia a quello di Guantanamo, ma questo volume ha un grande pregio: qualunque sia il vostro atteggiamento nei confronti dell’autrice, madre severa ed ipercompetitiva, il libro solleva le domande giuste, quelle che ogni genitore in coscienza prima o poi arriva a porsi.
Successo e felicità coincidono?
Cosa siamo disposti a fare e ad insegnare ai nostri figli per aiutarli nell’impresa di realizzarsi nella vita?
Sembrano domande banali ed in effetti sono sempre le stesse antiche questioni che ci poniamo non solo come genitori ma anche come singoli individui.
Forse ormai nella nostra cultura si è fatta spazio l’idea che il vissuto e le relazioni di ciascuno di noi influenzano così grandemente la percezione di successo e felicità tanto da eliminare un’accezione comune a tutti. E tuttavia, continuiamo a vivere in un mondo difficile e competitivo, dove la misura prevalente del successo è data dal denaro e dalla fama – e non sempre dal merito. Non possiamo pensare che i nostri figli riescano a prescindere totalmente da questo schema di valori, a meno di vivere su una montagna o di avere un’autostima fuori dal comune.
Comunque, qualsiasi sia il significato da attribuire a “successo” e “felicità”, resta il fatto che dobbiamo insegnare ai nostri figli come trovare la strada verso di essi.
E quindi, tornando a quanto di utile c’è nel libro di Amy Chua, penso sia il caso di fare i conti con il nostro concetto di “competitività” e con i sentimenti che questo termine risveglia in noi.
Per farvi un esempio, io ho ricevuto un tipo di educazione che ha creato in me forti conflitti rispetto a tutto ciò che è competizione esplicita. La bambina che aveva paura di competere e reprimeva l’aggressività spunta fuori tutte le volte che mio figlio si fa sotto nella competizione. Da un lato lo modero se esagera, dall’altro ne sono gratificata: lui sì che non ha paura di primeggiare!
Naturalmente non desidero insegnare ai miei figli ad essere vanesi e spocchiosi, ma sicuramente voglio che non abbiano paura di dare il massimo del proprio potenziale, di sentire la competizione come qualcosa di giusto ed istruttivo, un modo per arrivare ai propri traguardi con l’umiltà necessaria. Insomma, credo che coltivare un giusto sentimento di competizione sia come tenere la briglia del cavallo un po’ lunga e vedere dove ti porta, per poi tirare al momento giusto.
Amy Chua invece è una fanatica. E’ il classico prodotto della cultura cinese applicata alle seconde generazioni di immigrati nate negli USA. L’inflessibilità e la ricerca costante dell’eccellenza – costi quel che costi – tratteggiano il suo stile educativo orientale, che mira a liberarla dal tarlo che la attanaglia: mostrare ai suoi genitori di essere la perfetta mamma cinese di bambine cinesi, in un rimando di gratificazioni madre-figlia intergenerazionali. In uno schema del genere i risultati dei figli sono lo specchio delle capacità dei genitori: se il figlio non riesce ai massimi livelli, se non rispetta le altissime aspettative, se non premia il tempo e gli sforzi dei genitori nell’assisterlo, allora porta disonore alla famiglia.
Talvolta succede anche da noi, senza essere cinesi. Ricordo un amico tennista: quando perdeva il padre non gli rivolgeva la parola per giorni, trasmettendogli così il suo sentimento di delusione. Se perdi non ti voglio, anzi, mi fai un torto. Che odiosi ricatti affettivi. A quel padre avrei voluto dire: scendi in campo tu, non per interposta persona!
I migliori voti a scuola, vincere i tornei di un qualsiasi sport, essere il bambino più carino, più intelligente, più creativo: questo molti genitori chiedono ai figli.
A volte lo chiedono in silenzio, se lo augurano, perché “sì, mio figlio è il più bravo e io mamma ne sono contenta”. Fin qui nulla di male.
Altri lo pretendono. E allora sto attenta che la concentrazione non cali, che continui gli allenamenti con costanza; monitoro i voti della classe per sapere se gli altri vanno peggio di lui e in caso affermativo sotto sotto mi fa piacere; non gli insegno a collaborare perché poi deve dividere il merito con i compagni. Il successo di mio figlio mi gratifica più di altri valori educativi, mi sento la mamma alfa del bimbo alfa.
Pensiamo anche ai quei genitori che amano così tanto i figli da sopravvalutarli. Un altro amico di famiglia, uno che per altro aveva preso molto sul serio il ruolo di papà, aveva già deciso un futuro da ingegnere per suo figlio. Peccato che ingegneria non gli interessasse affatto e oggi sia perfettamente inserito nel mondo del lavoro pur essendo “solo” un ragioniere.
[quote]Il figlio che non ci aspettiamo, quando ce l’aspettiamo vincente ed affermato secondo dei canoni stabiliti da noi, scalfisce le nostre certezze. Perché i nostri metodi educativi hanno avuto successo con il primo bambino e non con il secondo? Perché mio figlio perde tempo con attività che non mi sembrano costruttive per il suo futuro? I risultati tardano ad arrivare, dove ho sbagliato? Se mio figlio è privo di grinta vuol dire che io sono un genitore coniglio?
Il rischio è quello di perdere di vista le aspettative del bambino, di confondergli le idee non permettendogli di capire da solo quello che gli piace fare e che genera in lui una passione. In breve, di non trovare se stesso e il proprio stile di realizzazione.
Persino Amy Chua ha dovuto arrendersi. La minore delle sue figlie ad un certo punto si è ribellata: ha smesso si studiare violino semplicemente perché non le interessava affatto essere una bambina prodigio.
Oggi spiegavo a mio figlio di 5 anni che Mozart era un piccolo genio e alla sua età aveva già composto musica. Lorenzo mi ha risposto: “A me interessa stare tranquillo”. E questa è l’uscita di un bambino che fa un sacco di cose e – frase classica – mi riempie di soddisfazioni. Vuol dire che i bambini devono essere stimolati, ma alla fine chiedono solo di stare tranquilli, cioè di avere del tempo da perdere per giocare, capire cosa piace loro, scegliersi. Allora può arrivare la voglia di impegnarsi, ma come desiderio che nasce da dentro, fino a conoscere i propri limiti e provare a superarli.
E noi genitori?
Dobbiamo stare lì accanto, offrendo stimoli e obiettivi raggiungibili, cercando però di interpretare la sensibilità e i tempi dei nostri figli, senza calpestare la loro personalità.
E voi che rapporto avete con la competizione? Scatena in voi sentimenti contrastanti?
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@Marzia io vorrei tanto smitizzare sta storia dei pensierini (eccheppalle me li ricordo ancora che trauma da piccola, fatemi fate 700 problemini di matematica, ma i pensierini nooo): il mio grande, 8 anni fra poco, legge con una voracita’ impressionante, ormai fagocita libri di 200 pagine a capitoli senza battere ciglio in un paio di mattinate. Ma ditegli di scrivere un pensierino…. un parto ogni volta per sputare fuori 10 parole in fila. E’ complicato alla loro eta’, punto, e spero e confido che tutte le maestre del mondo lo sappiano benissimo in realta’, e fingono spudoratamente quando tirano fuori quei commenti. Ecco.
io ho letto il libro non è brutto ma Amy Chua è una pazza se era mia madre a 18 anni me ne andavo di casa e non le parlavo mai più!
Non sono per niente competitiva e per il momento i miei bambini non lo sono. Non sò se la competitività si apprende in famiglia(nemmeno mio marito lo é) oppure se è innata. Magari la svilupperanno da grandi. Non penso che sia un sentimento negativo ho fatto sport e se non sei competitiva non vinci, infatti io ho lasciato, però non a discapito dei sentimenti degli altri, come sempre la giusta via stà nel mezzo ed è difficile mantenercisi
La competitività in casa mia non è molto sentita. Forse perché entrambi, sia pure in sensi diversi, abbiamo una forte autostima e, se questa cala, non è gareggiando con gli altri che ce la tiriamo su.
Soprattutto, non siamo per niente convinti che la felicità coincida con il successo o la fama: la felicità è amare la vita che fai, punto. Certo, a volte la fama e/o il successo sono necessari per vivere di ciò che ami: metti che fai l’attore, per esempio. Ma si può essere molto felici anche “solo” facendo formaggio in una cascina persa nella nebbia. Si può essere felici anche facendo con coscienza un lavoro impiegatizio e poi tornando nella famiglia che ti sei costruito, praticando i tuoi hobby e frequentando gli amici.
Io penso che una cosa sia giusta di Amy Chua: bisogna aiutare i bambini a valorizzare i propri talenti. Non legherei mai mia figlia al pianoforte, ma mi faccio il culo per portarla a ginnastica perché penso che abbia talento (oltre a piacerle).
Non mi aspetto che i miei figli diventino chissà cosa, anzi, per me possono anche non finire le superiori. Purché trovino qualcosa che li appassioni e che li renda felici.
Questa discussione viene giusto in una giornata storta in cui mi chiedo se sia davvero giusto il mio atteggiamento di attesa – o meglio scarsa attesa – nei confronti di mio figlio.
La scorsa settimana la maestra gli ha scritto sull’ennesima pagina di frasi da inventare “Da te mi aspetto molto più di questo”. Sono rimasta un pò dispiaciuta e un pò interdetta. Ho riflettuto sul fatto che invece io non mi aspetto qualcosa di speciale da lui. Solo che cresca, che accetti finalmente l’idea di far parte di questo universo e che inizi a divertirsi alla grande.
Negli ultimi anni mi sono sentita dire troppe volte e da troppe persone – presunti esperti pure – che mio figlio “è avanti”. Molti mi hanno chiesto se gli avessimo fatto fare test per il QI e parevano quasi stupiti del fatto che no, non ci importava nulla di dare una categoria alla sua intelligenza. Che al termine intelligenza poi io assegno tutti altri significati, e in quelli Alex non ne uscirebbe certo vincitore. Il fastidio è che anche a scuola ora si sia creato un alone di attesa destinato inevitabilmente ad infrangersi nelle pieghe del tempo che scorre. Perchè la maestra dovrebbe aspettarsi qualcosa di meglio rispetto ad un normale e correttamente scritto compito di un settenne? All’inizio pensavo dovesse fare al meglio delle sue possibilità ora francamente mi sta bene comunque. E anche al diretto interessato.
Io combatto ogni mattina per trascinarlo in classe, perchè dice di annoiarsi a morte, perchè odia prendere la penna e scrivere ciò che gli dettano, perchè mentre i suoi compagni finiscono chiacchierando i loro lavori lui si spella le dita dei pollici …. Gli ripeto ogni giorno che in una scala ci sono tanti gradini e per arrivare salvi in cima occorre mettere i piedi su ognuno di essi, ogni gradino insegna qualcosa anche se quel qualcosa non è uguale per tutti. Lui a scuola va ad imparare altro, impara ad essere un bambino. E per questo che la odia?
Quando dico queste cose poi mi sento a disagio, pare anche questo un modo per mettersi in competizione. Ma la verità è che non so cosa fare.
Non ho nessun merito per i suoi talenti come non ho tutte le colpe delle sue carenze. Gli lascio tutto il tempo che vuole, non forzandolo ad attività extra-scolastiche che tuttora rifiuta e spero che l’acquisizione di un suo equilibrio lo renda propenso a scegliere ciò che preferisce. A lui ora piace tantissimo stare tranquillo, anche un pò rintanato.
Ma quando vengo approcciata dalle mamme dei suoi compagni che mi descrivono mio figlio nei dettagli, immagino su racconti dei bambini (che io non avrò mai dal mio), e mi dicono “certo è un pò timido ma del resto quando sono così intelligenti” … ecco, mi pare di far parte di una gara a cui francamente non ci siamo iscritti.
Ecco, pure Chiara mi mancava. Inutile, che per noi tutte la cifra interpretativa vada in quella direzione lo avevamo anche capito, ma ci pensate come, partendo da un blogghino di sfogo, siamo arrivate a incrociarci, piacerci, conoscerci e parlarci/ E perchè proprio noi hard core group e altri no? Perchè in qualche modo ci siamo annusati/e e riconosciuti/e. Ora magari sembra arroganza e autocompiacimento, ma una cosa saggia detta dalla prima blogger che ho conosciuto di persona, è che il blog è un fortissimo strumento di aggregazione e separazione. Uno guarda tutto, e commenta tutto, ma dove sente l’ odore del nido, lì si ferma a dormire.
(Bimbe, mica ce li siamo scordati i libri, le inizative, i congressi, i mom-camp eccetera?)
@Silvia, temo di non essermi spiegata bene: non mi piaceva la connotazione negativa di quel “da perdere”, penso anch’io che sia fondamentale poter avere un pò di tempo da perdere. E giocare non è tempo perso, avere del tempo per capirsi e poter scegliere bene non è tempo perso, anzi!
Ma ci vuole anche del tempo da perdere a fare qualcosa di perfettamente inutile e magari non costruttivo, un pò di tempo per noi del quale non dover rispondere a nessuno. Sennò sai che strazio! Questo intendevo.
ecco vedi e invece quel “a me interessa stare tranquillo” a me mette un po’ di malinconia, io sono stata una bambina supertranquilla, la classica paciona, dove la mettevi stava, mamma supercontenta di avermi cosi’ immagino (visto che non mi ha mai stimolato a far altro che leeeeeggere, studiaaaaare, coloraaaaare, leeeego, televisioooooone) e io supercomoda a stare a casa bel bella, e invece ora se potessi tornerei indietro per auto-darmi un calcione nel sedere 🙂
“noi siamo naturalmente una razza superiore, quindi chi se ne frega della competitività che è lo sfogo naturale di quelli che devono faticare per raggiungere la media:-)” ecco, questo ahimè è la mia cifra interpretativa della realtà… so che finirò all’inferno per questo! (no, no, non scatenate il flame… capiteci, c’è la faccina sorridente).
Però la competitività del Piccolo Jedi a me tocca spegnerla con l’estintore…
Io non sono competitiva, il maschio nemmeno (ma siamo figli maggiori entrambi) e ai bambini diamo quel minimo di stimoli per far cose, ma neanche più di tanto. Figlio 2 si è fatto cacciare dal coro ed era giusto così per lui, Figlio 1 ce lo porto a calci come a calci lo mando a scuola quando cominica a fare il malato immaginario. Ci parlo, sviscero, cerco di capire perchè non vuole e in genere gli basta questo.
Poi che c’ entra, noi siamo naturalmente una razza superiore, quindi chi se ne frega della competitività che è lo sfogo naturale di quelli che devono faticare per raggiungere la media:-)
(No, fatemi specificare, che voi mi conoscete e lo sapete con quanta tongue in cheek dico ciò, ho in bocca praticamente la lingua di un bovino arrotolata per farcela entrare, ma non vorrei si scatenasse un flame di quello corrosivi).
Bello quello che dici sulle riflessioni, io ho letto il libro a pezzi e non l’ ho finito, ma in quei pezzi vedevo un’ autoironia, quella di chi a posteriori si dice: ma guarda le cose che ho fatto, mio marito e mia suocera avevano pur ragione. gli avessi dato retta allora. E questo me la rende umana e simpatica, fermo restando il discorso che fai tu sulla tipicità etnica dell’ autrice e le sue tipiche esagerazioni.
Anche a me ha colpito moltissimo la risposta del bambino “ a me interessa stare tranquillo”, la trovo saggia, bellissima ed equilibrata. La tranquillità (intesa anche nel senso di assenza di pressioni e aspettative più o meno esplicite) è il terreno su cui un individuo e ancora più un bambino può mettere a frutto i propri talenti e la responsabilità che a volte mi schiaccia come genitore è proprio questa : essere davvero capace di favorire le condizioni migliori proprio in termini di serenità per poter fare in modo che i miei figli possano vivere esperienze e poter trovare una propria strada.
E invece io quel “da perdere” lo condivido. Perchè i bambini vogliono proprio tempo da perdere, da ritrovare, da trascinare in giro, tempo da dimenticare qua e là, come un mazzo di chiavi. I bambini vogliono tempo vuoto: le “ore vuote come uova di cioccolata” del vate Baglioni, per intenderci. Il tempo perso è bello: ed il bello sta proprio in quel poterlo perdere a manciate, senza definirlo. Non è tempo per il gioco, per il disegno, per la creatività, è proprio perso a star tranquilli, perchè hai la sensazione che sia infinito e che non corra da nessuna parte. E quella sensazione ce l’hanno solo i bambini.
La frase “a me interessa stare tranquillo” mi commuove e mi rende l’idea del tempo bambino.
Hmmm, hai scritto una frase che non mi piace per niente: “i bambini devono essere stimolati, ma alla fine chiedono solo di stare tranquilli, cioè di avere del tempo da perdere per giocare, capire cosa piace loro, scegliersi.”. Chiarisco, sono d’accordissimo con la frase, se ci togli il “da perdere”. Perchè non trovo affatto che sia tempo perso, se le cose vengono fatte per i motivi che dici tu, e anche no: a volte perdere tempo semplicemente per perderlo è fondamentale. Non capisco se sia una tua idea o un’interpretazione del messaggio del libro.
Comunque, io personalmente non mi sento una mamma competitiva (e non lo sono neanche come persona, o lo sono nel modo sbagliato non accorgendomene). I traguardi di mia figlia sono traguardi suoi, non miei. Io di certo gioisco, ma sono felice per lei, non per me (e questo lo chiamo Amore). Non ho aspettative precise sul suo futuro, trovo molto più divertente stare a guardare l’evolversi della sua vita. Certo, cerco di instradarla verso scelte educative che ritengo giuste, ma educative, non personali. Già da prima dei due anni la invitavo a scegliersi da sola i vestiti da mettere quel giorno (con risultati di accostamenti sorprendenti, o imbarazzanti), la mattina le chiedo cosa voglia come merenda a scuola, insomma cerco di coinvolgerla nelle scelte che la riguardano forse perchè ancora soffro del fatto che invece i miei hanno deciso molto al posto mio. Fra poco dovrò affrontare la scelta della scuola materna e fra un anno o due quella dello sport, e allora arriveranno i discorsi difficili…
brava M di MS, bel post. Anzichè bruciare libri nelle pubbliche piazze di internet quando non ci piacciono (un altro esempio è la Badinter), impariamo a usarli per porci le domande giuste e a trovare le NOSTRE risposte. tutto qui. anche sulla competittività: come sai, la mia “crociata” è sempre quella di liberare alcuni termini dalle negatività di cui un certo tipo di mentalità li ricopre, e incoraggiare ad essere attenti, aperti, flessibili. Successo, felicità, competizione, carriera, non devono significare per forza arroganza e prevaricazione. possono essere stimoli a migliorarsi come persone, in relazione ad altre persone. Una volta mia madre ha fatto esattamente quello che racconti: ho perso una partita di tennis, e mi si è ammutolita. MI ha fatto molto male. E’ umano che tua madre voglia vederti vincere. Ma si perde anche, cavolo, e allora allenarsi alla competizione della vita è anche allenarsi a perdere.
la competizione non mi interessa minimamente in verita’ – pero’ non e’ detto che cercare di farli appassionare e fare bene molte cose sia da legarsi necessariamente alla competizione, come dicevo nel post sulla creativita’, secondo me non dobbiamo sprecare le opportunita’ di esporli a tante cose, poi se le prendono bene, se no pace. Vedi la musica, ai miei non e’ mai venuto in mente che potesse essere una cosa importante da fare per me, e quindi ora non so suonare neanche il tamburello, e mi dispiace moltissimo, la musica e’ una compagnia incredibile, vedo il mister quando e’ giu’ di morale o su di morale o sovrappensiero o concentrato, insomma non importa, prende la chitarra e suona, io questa cosa la voglio regalare ai boys, questa opportunita’, preferisco che da grandi possano scegliere di abbandonare qualcosa che non amano, piuttosto che sentirsi pentiti di non aver intrapreso qualcosa che avrebbero amato.