Cosa anima il genitore di un giovane talento sportivo se non si tiene a bada qualche antico dolore o frustrazione? La gelosia.
Simona era la mamma di Marta, una ragazzina che si allenava assieme a mia figlia nella locale società di ginnastica ritmica. Marta non era una ginnasta qualsiasi, ma la più talentuosa.
E snodata! Ho detto snodata? Volevo dire: snodatissima. Simona si premurava sempre di far sapere ai genitori che assistevano agli allenamenti che se la ragazza non si fosse sforzata di trattenere l’apertura delle gambe entro i 270° non si sapeva che fine avrebbero fatto.
Marta aveva molti altri talenti: senso del ritmo, presenza a se stessa, buona presa degli attrezzi, espressività. Le mancavano però due doti fondamentali: spavalderia e voglia di emergere. Ma fa niente: l’ambizione della madre compensavano egregiamente queste lacune.
Se aveste letto “Priscilla” di Giana Anguissola quando eravate piccoli adesso non avrei bisogno di aggiungere altro e ci saluteremmo con vigorose pacche sulla spalla, arrivederci e alla prossima.
Ma non l’avete fatto, e allora mi tocca spiegare quale magma di sentimenti – nessuno dei quali encomiabili – animano le madri dei giovani talenti e in quante e quali forme si manifesti la loro gelosia nel confronti delle altre ginnaste (ballerine, calciatori, atleti) quando l’allenatore riserva le proprie attenzioni ad altri che non siano i propri, talentuosissimi figli.
La mamma di Simona era temuta da tutti, a cominciare dalle titolari della Società di ginnastica ritmica per proseguire con le allenatrici, le coreografe, le altre ginnaste e poi giù, giù fino a proseguire con i gestori della palestra, gli altri genitori, la sua stessa figlia.
Se Marta faceva cadere il nastro in allenamento e la madre assisteva alla disfatta, era capace di andare a nascondersi sotto il primo tavolo e rimanervi per il resto del tempo.
Oltre all’ansia da prestazione, la povera Marta aveva anche un altro problema: una ginnasta brava quanto o più di lei. Più aggraziata, se non altro, e con un’eleganza naturale da ballerina. Lei e Marta avrebbero potuto essere amiche se non fosse stato per lo sguardo inceneritore che la madre posava sulla rivale.
Ma era durante le gare che Simona dava il meglio di sé. Si materializzava affianco ai genitori della ginnasta in pedana e iniziava a fare le sue considerazioni (il termine tecnico è: gufare). “Oddio, per poco le cade la palla!” “Tua figlia è nervosissima. Non riuscirà a concludere bene l’esercizio” “Questo passaggio le riusciva meglio in allenamento” “Oh! Peccato”.
Attorno alla sua figura si era coagulata una aneddotica ricchissima. Erano famose le frasi di sconcerto che Simona rivolgeva alle madri di ginnaste meno dotate (“Anche tua figlia andrà al collegiale? Ma è impossibile, quello è riservato ai talenti come la mia”) così come lo sguardo perplesso che gettava gettava sulle allenatrici colpevoli di dare le loro attenzioni a tutte le ginnaste anziché una sola.
Eppure, se dovessi definire il sentimento che animava Simona, non parlerei di ambizione ma di gelosia. Una gelosia feroce, la stessa che alberga nel cuore di un bambino che vede la madre dedicare le proprie attenzioni a un figlio meno dotato ma più amato.
Simona non aveva velleità da ginnasta da compensare, il suo era semplicemente un sentimento feroce e totalizzante che scaturiva da corde che vibravano per qualcosa che conosceva solo lei. Una vibrazione bassa e profonda che saliva in superficie e che era facile percepire stando semplicemente in souplesse. Era per via di quel dolore così evidente che nessuno – né le ginnaste, né i loro genitori, né tanto meno le allenatrici – aveva mai voluto ripagarla della stessa moneta.
Ancora oggi che è passato tanto tempo, è sempre Simona a rappresentare per me il paradigma della gelosia.
(Com’è finita? Che le ginnaste sono cresciute, si sono rese conto che, per quanto talentuose, non sarebbero mai uscite dal circuito interregionale, e hanno deciso di abbandonare una disciplina tanto amata piuttosto che galleggiare in una tranquilla mediocrità. Adesso si può trovare Marta a passeggio per le vie del centro storico assieme agli amici mentre sua madre – implacabile – osserva attenta gli allenamenti di calcio dei fratelli)
“Era per via di quel dolore così evidente che nessuno – né le ginnaste, né i loro genitori, né tanto meno le allenatrici – aveva mai voluto ripagarla della stessa moneta.” Cioè credi di incutere timore, mentre invece fai pena… Ho visto persone così, degli infelici che spargono infelicità e tossine. Mi risulta sempre più difficile tollerare quel muro di imbarazzo che ti impedisce di parlare francamente di quella solitudine e quel dolore con loro.
[sperando che questo articolo non venga mai mai mai letto da alcuno in grado di ricostruire i veri nomi e le situazioni]
capisco bene cosa intendi. È perché si invecchia eh. Niente di cui rallegrarsi
Però scusa, non puoi avere la botte piena e la moglie ubriaca… Da una parte dici che il padre delle Polgar ha fatto bene a spingere le figlie (a 4 anni a mettersi sulla scacchiera), dall’altra critichi questa madre perché fa la stessa cosa (ma ti assicuro molto di più all’acqua di rose rispetto a quello che può aver fatto il Sig. Polgar).
Se per emergere in determinate discipline lo puoi fare solo molto da giovane… c’è poco da fare, c’è sicuramente un prezzo da pagare.