È forse colpa della mia famiglia matriarcale se sono stata vittima di un pregiudizio che nemmeno sapevo di avere ma che è affiorato, inaspettato, sul lettino della ginecologa: “È maschio” – aveva dichiarato tutta festosa muovendo la sonda – e ricordo di aver pensato maledizione!.
I maschi sono così fragili, mi ero detta mentre tentavo di mettere a fuoco un sentimento del tutto nuovo. Non capivo – né avevo voglia di farlo, sul momento – perché scoprire di aspettare un maschietto aveva smosso emozioni e timori che faticavano a venire in superficie e non trovavano una loro narrazione, lasciandomi costernata.
Vengo da una famiglia di rezdore. Tra i primi ricordi d’infanzia c’è questa nonna, questo donnone imponente, che curava i rapporti con i mezzadri, disponeva l’ammazzamento del maiale, stabiliva i tempi della mietitura e quelli della vendemmia, gestiva la segheria del nonno, combinava matrimoni, dichiarava guerra alle nuore, cresceva nipoti e teneva le redini del paese.
I ricordi d’infanzia sono filtrati dallo sguardo del bambino nuovo di zecca e la loro rappresentazione visiva ha i tratti surreali di un sogno che rivela, attraverso il paradosso, la realtà. Nei miei ricordi la nonna imponente domina la scena mentre stende la pasta delle tagliatelle nella cucina odorosa di vino e ragù; sullo sfondo, uomini piccoli e segaligni le scutrettolano attorno: mio nonno, mio padre, gli zii, Aldo il fattore e tutti i mezzadri che la informano sul raccolto dandole del Voi e indisponendola molto, ché solo qualche lustro prima i loro padri non avrebbero osato rivolgerle la parola – con il cappello in testa, poi.
Vengo da una famiglia di rezdore. Nei primi ricordi d’infanzia c’è questa donna alta e sottile, occhi verdi e lineamenti delicati, che impartiva ordini attraverso silenzi colpevolizzanti in grado di far precipitare coloro che li subivano in spirali di malessere che rendevano necessario fare qualsiasi cosa per farli cessare. La nonna taceva ed ecco i figli impegnarsi in casa e a scuola, il nonno fare gli straordinari, i parenti agistarsi e gli amici correre in soccorso. Uno stratagemma che mia madre ha imparato con la naturalezza con cui si acquisisce una lingua madre, appunto, e che tuttora utilizza alla bisogna, anche se ormai nessuno ci casca più, solo mio padre continua a esserne vittima. “Mi sta accusando di qualcosa”, si lamenta, mentre lei serra le labbra.
Le donne sono forti, le cose che fanno, incredibili. Tengono le fila delle vite proprie e altrui, le creano, danno loro una forma. Ho visto le figlie piangere per un cuore spezzato o per la perdita di amicizie che erano tali solo in apparenza, barcollare sotto i colpi dati da piccole sconfitte o da ingiustizie di cui si sentivano vittime e pensare che, nonostante questo, non c’erano dubbi che ne sarebbero uscite presto in quanto donne. Una persona biologicamente predisposta al travaglio può sopportare questo e altro. Ma un bambino, un maschio, era tutto un altro discorso. Sarebbe stato in grado di circoscrivere un malessere dandogli un nome? Avrebbe saputo sopportare un dolore senza avere come paradigma quello del parto? Sarebbe stato in grado di uscire da quel sistema di comunicazione binario che sembrava essere stato il destino dei miei uomini di riferimento?
Sono passati anni e mi sono risposta, ho fatto piazza pulita di alcuni miei pregiudizi, ma non tutti. È rimasta la convinzione che le amiche di mio figlio abbiano tutte più strumenti per affrontare le intemperie e una forza interna che a lui manca e che ha a che fare con la capacità di rialzarsi subito, di cambiare rotta, e con una certa forza creatrice che nelle donne tracima ovunque – nel lavoro, negli affetti, nel gioco – e che è salvifica nei giorni di pioggia. Forse a causa di queste donne che mi paiono così forti e indomite che sono insofferente alle sue lagne e meno disponibile ad ascolare le ragioni del suo malcontento. “Impara dalle tue sorelle a essere forte” – dico a questo ultimo, amatissimo figlio – “boy, stop crying!”