Sono nata nell’83 e sono stata cresciuta ed educata nell’eco di ideologie e culture che sarebbero morte (quelle che non sono morte mostrano la corda): il comunismo, il consumismo, l’imperialismo culturale europeo, il sindacalismo, e pure il femminismo.
Il sistema cerca sempre di convincerci che quello che possiamo avere, e soprattutto quello che fa comodo al potere e allo status quo, è quello che realmente vogliamo.
Ma quello che mi hanno convinta a desiderare da bambina (la bellezza di una modella, un posto fisso, una carriera manageriale, un matrimonio felice, un paio di figli tra loro coreografici) fa a pugni con l’evidenza che, se già allora l’Europa non era il centro del mondo, oggi sta anche perdendo la sua autorevolezza: vivo in un paese periferico, non tanto economicamente, quanto culturalmente, e il sogno del benessere senza pensieri appare quanto mai remoto. Quello che oggi, come donna, posso permettermi di sperare pensando alla mia famiglia, è di mantenere il lavoro e magari di innamorarmi di qualcuno con cui condividere le spese, pur barcamendomi in un Paese che non ama le famiglie.
La mia visione della famiglia è prosaica: io credo che sia un’associazione di mutuo soccorso, dove l’amore (che è bellissimo) NON è una conditio sine qua non.
La famiglia veicola anche lo status quo e, in alcune società, patriarcato e patrilinearità, e controlla la capacità riproduttiva, in particolare attraverso il controllo del corpo della donna. È per questo che è stata nel mirino del movimento femminista degli anni 70. “Il personale è politico”, dicevano.
Ma torniamo a come mi sento, come donna capo-famiglia, schiacciata tra le rivedicazioni femministe e un futuro incerto che aspetta la generazione delle mie figlie.
Da bambina, negli anni 80 e 90, percepivo che donne e uomini erano sullo stesso piano, soprattutto perché non avevo il padre da confrontare con la madre, ma poi mia nonna, era me che mandava in cortile con la maglietta mentre mio fratello poteva stare a petto nudo.
Mia madre è nata nel 1963 e ha due fratelli maschi. Dice di aver accusato un trattamento differenziato, in famiglia, e, ovviamente, non l’ha mai digerito: lo considerava un retaggio di due genitori antichi, in un mondo in cui lei se la sarebbe potuta cavare benissimo da sola, anche se donna. A 22 anni, nell’85, aveva due figli. Economicamente si arrabattava, senza un titolo di studio. Ma il lavoro c’era. Aveva dalla sua parte la protezione di un sistema economico che si pensava sarebbe cresciuto all’infinito. Un lavoro lo si trovava sempre. Se non c’era di meglio, si andava a fare le pulizie, o nei magazzini della frutta o in fabbrica. La fabbrica era la grande mamma di tutti e tutte coloro che non avevano arte né parte. Ma poi è sparita LaFaenza, fabbrica di ceramiche; hanno smantellato l’Omsa, e ora stanno delocalizzando la Cisa.
Oggi, a Faenza, la fabbrica non c’è quasi più. Il lavoro nelle pulizie nemmeno, e quando c’è, le dipendenti manco sono più dipendenti ma socie lavoratrici delle cooperative e così mancano persino i diritti di base.
Mia madre oggi, forse, non sarebbe la giovane donna indipendente degli anni ottanta. Ma allora il sistema poteva permettersi di inserire nel loop della produzione e del consumo anche noi figli delle case popolari.
Mia nonna invece è stata per tutta la vita una donna sola e depressa, serva della famiglia. Non aveva potuto studiare per fare la maestra, essendo “solo” la figlia femmina, e si era ritrovata con tre figli e una vita infelicissima, tra quattro muri. Aveva finito per disprezzare mio nonno, al quale si rivolgeva solo con insulti (noi tutti naturalmente difendevamo lui), ma non aveva mai ventilato l’ipotesi di andarsene di casa. Primo, perché non aveva mai lavorato; secondo perché nessuno l’amava così tanto da volerla salvare dall’infelicità. E dunque io credo che il suo matrimonio sia durato cinquant’anni fondamentalmente perché non c’era il lavoro o non era previsto che le donne lavorassero, specie se il marito guadagnava quello che bastava alla famiglia. I miei nonni erano persone semplici, che avevano cominciato a farsi un’idea del mondo durante la guerra. Mentre il capitalismo e il consumismo hanno dato a mia madre il “pensiero in grande”, la guerra ha dato ai miei nonni un senso di precarietà e di incertezza, un prendere quello che veniva, senza pensare troppo al domani, né tantomeno alla felicità.
Oggi l’economia gira male e non è rado incontrare persone che vivono assieme per necessità: coppie, amici, sconosciuti, figli adulti con i genitori anziani. Un anziano ricco ha coniato il termine “bamboccioni”. Non sono più le donne, quelle senza lavoro. È una generazione intera, che sta ridisegnando il concetto di famiglia sulla base delle possibilità.
Il sistema dicevo, ci convince che quello che possiamo avere è quello che vogliamo. E noi ora vogliamo tutti il downshifting. Vogliamo tutti vestiti vintage. Vogliamo l’upcycling.
Sono nata nell’83. Le mie sorelle hanno fatto delle conquiste che qualcuno mette puntualmente in discussione. Non sono ancora libera di essere la donna che voglio, e gli uomini non sono ancora liberi di essere gli uomini che vogliono. In quanto uomini, per esempio, il sistema prevede che amino le donne, e viceversa. Nel 2015 cresco tre bambine da sola, e so che le persone si chiedono con quanti uomini le ho concepite. Essere libera assomiglia ancora all’essere un po’ zoccola.
Le generazioni passate non sono riuscite a portare a termine la rivoluzione o è il sistema che ha fatto un passo indietro? E io, che responsabilità ho nei confronti delle generazioni future? Che diritti sto pretendendo per le mie figlie? Mi sto solo limitando a desiderare quello che il sistema vuole per me?
Ci penso da alcuni giorni, ma non arrivo a una conclusione. Mi aiutate a capire quale responsabilità abbiamo, come generazione, e, nei fatti, cosa stiamo facendo per onorarla? A me sembra che mi sto accontentando di resistere senza perdere la dignità.
Grazie per questo bel post, anch’io come Mammamsterdam sono nata tra te e tua madre e nella mia famiglia i figli si fanno tardi ‘(mia nonna ha avuto mia mamma, prima figlia, a 36 anni, mia mamma a avuto me a 30, io ho avuto il mio primo figlio a 39) quindi i confronti tra generazioni sono forse piu’ dilatati. Forse la mia generazione e’ quella che ha perso il treno? a 40 anni suonati forse finalmente diventiamo grandi ma quelli della tua e i ventenni ci stanno gia’ superando. Mi ricordo che avevo questa sensazione perfino quando facevo il liceo negli anni ’80.
Valentina, bellissimo articolo, scritto bene, in maniera chiara e diretta e senza tanti sfronzoli e piagnistei…non ho ancora una risposta al tuo quesito mi sto ponendo molte domande, molto simili alle tue, se non addirittura le stesse…anch’io madre di tre figlie, anche a me sembra di “accontentarmi di resistere senza perdere la dignità”!!! In bocca al lupo!!!
In bocca al lupo a tutti noi. Chissà che cosa lasceremo.
Polly non ne ho idea, considerando oltretutto che come età sto tra te e tua madre. Ma vedo che quelli che stanno tra te e i nostri figli hanno un certo tipo di approccio comunitaristico. Per esempio l’ altro giorno un’ amica lontana mi chiede se posso ospitarle ad Amsterdam due giorni una sua amica di Facebook che non ha mai visto di persona ma che da Facebook sempre una ventenne carina e a posto, perché il posto dove doveva andare le ha fatto il bidone. Io non avevo posto in casa, ho chiesto a mio fratello se poteva stare da lui Lui era all’ estero ma mi ha detto di mettermi d’ accordo con i ragazzi con cui condivide casa. Alla fine lei è arrivata, le ha aperto l’ unico dei coinquilini con cui non avevo parlato, gli altri mi hanno portato i suoi saluti, io il giorno che arrivava ero fuori ma tramite wazzap le ho datto il benvenuto e mi sono accertata che stesse bene e le avessero aperto. Il nostro presente è quello del couchsurfing, delle amicizie su Facebook che finiscono per raccontarti più cose di loro del vinicoli casa, delle affinità progettuali. Le certezze, credo, ce le dobbiamo fare da noi. Ma per ora mi sembra che vada bene. Gnente gnente ci tocca rivedere il comunismo? In questo momento quello che mi manca sono i diritti per il nomadismo, ma se riusciamo a sistemare quello,direi che il nostro è un futuro on the road ancorati a qualcosa.
Internet e la crisi ci hanno aiutato a rispolverare la condivisione, la solidarietà però non so.