Sembra essere una legge di natura: più invecchi, più conservi. Ti aggrappi alle testimonianze di un’epoca in cui hai vissuto e fatto cose. Non me lo spiego altrimenti.
Ieri sono andata a trovare i miei genitori. Non mi hanno prestato molta attenzione, impegnati com’erano a fare il cambio di stagione. La procedura osservata prevedeva che ogni capo venisse liberato dalla plastica protettiva, portato in terrazza ad arieggiare, ricoperto nuovamente qualche ora dopo e riposto in uno degli armadi a quattro ante del piano superiore, quelli appartenuti alle nostre camerette di ragazze e ora utilizzati per il loro guardaroba. Di ogni capo veniva valutato il grado di usura, ricordato l’anno di acquisto, le occasioni in cui era stato indossato, e infine riposto là dove avrebbe riposato nei mesi successivi per essere tirato fuori nel prossimo autunno. Per essere indossato? No. Per essere conservato in un altro armadio.
“Butta quella giacca, mamma! È lì da trent’anni e sono trent’anni che non la usi!”
“Non sono trent’anni! L’ho messa nel 1985!”
Un’altra legge di natura è che invecchiando si perde il senso del tempo. Succede anche a me, convinta come sono che siano passati solo dieci anni dagli anni Novanta, ché questo succede: la mente si aggrappa all’epoca in cui si è stati felici. Deve essere per questo che i miei genitori ordinano i propri ricordi secondo una cronologia personalissima in base alla quale l’ultimo decennio è faticoso e lontano ma gli anni Ottanta no, sono solo ieri, ragion per cui non c’è alcun motivo di disfarsi di quella giacca acquistata quando si era impiegate.
“Non solo la tengo, ma te la regalo, anche. Così la potrai indossare tu”
La terza legge di natura è che non si esce mai dall’adolescenza perché anziché ringraziare per il gesto di mia madre, mi sono arrabbiata. “Stai facendo passare per gentilezza un atto di carità” le ho detto, e improvvisamente tutto quel guardaroba sovradimensionato, tutto quei capi mai più indossati ma conservati con ostinazione mi sono sembrati paradigma di qualcosa di più grande. La protervia con cui le generazioni si rifiutano di lasciare il passo, forse. Una forma di arroganza, di manifestazione di potere.
“Non è giusto che voi due occupiate quattro armadi grandi e noi, che siamo cinque, si riempa un guardaroba solo” ho recriminato vergognandomi delle mie stesse parole.
Ma poi, sopraffatta da tutta quella rabbia, sono stata costretta a ragionarci su. “L’idea di conservare, di accumulare, appartiene a un’epoca in cui la ricchezza si misurava nel possesso e nella proprietà” – ha chiosato il marito – “mentre oggi la sharing economy ci ha insegnato che la leggerezza è un valore. Il benessere non si misura nel possedere un oggetto, ma nel poterne disporre quando necessario“.
“È il concetto stesso del cambio di stagione a essere obsoleto” ha aggiunto la figlia diciassettenne vestita in t-shirt estiva e pantaloni invernali “Non esistono più le quattro stagioni ma una sola, unica, grande mezza stagione“.
E non so perché ma quest’ultima affermazione, letta in filigrana e proiettata su me, suoi miei genitori, i miei figli, mi ha placato e rasserenato.