Paola Liberace: esternazioni sulle politiche di conciliazione

Paola Liberace è product manager, giornalista, esperta di media e comunicazione, nonché autrice del libro Contro gli asili nido. Politiche di conciliazione e libertà di educazione, Rubbettino, 2009. Ho chiesto a Paola di contribuire con le sue riflessioni sulla conciliazione al nostro CerVello di mamma e papà. Apprezzo moltissimo il suo stile lineare e pulito, e la sua visione del lavoro con la quale non posso che trovarmi perfettamente d’accordo. Accolgo quindi con entusiasmo questo post, e ve lo propongo nella speranza che riesca a sollevare un po’ di discussione. Voi che ne pensate?

La parola “conciliazione” non mi ha mai convinta fino in fondo. Da quando ho aggiunto alla mia definizione personale, oltre all’attributo di “lavoratrice” e accanto a mille altri, anche quello di “madre”, mi sono imbattuta in questo termine, ho dovuto ascoltarlo, ho dovuto usarlo, ma ne ho avvertito l’insufficienza. Parlare di “conciliazione” tra famiglia e lavoro significa presupporre che i due siano cose distinte e difficili da accostare: alla base del tentativo di farli (faticosamente) convivere, c’è una separazione netta, c’è un modello lavorativo e sociale che esige che la sfera familiare, della cura e degli affetti, sia tutt’altro da quella pubblica, del lavoro e delle competenze. Per inciso: lo stesso modello che, preso atto della separazione che esso stesso ha sancito, invita senz’altro ad accantonare la prima sfera in favore della seconda – delegandola, nascondendola, tacendola.

E se invece cominciassimo a parlarne? Prendiamo la genitorialità: un vero e proprio tabù per il mondo lavorativo (di certo, ma non soltanto, nel nostro paese): da affrontare a denti stretti cercando di minimizzare le “perdite”, al massimo da sdrammatizzare con battutine alla macchinetta del caffè; raramente da considerare una ricchezza, una vera risorsa. L’idea di tirare fuori l’esperienza genitoriale nel curriculum vitae – il biglietto da visita di chiunque lavora o cerca lavoro – potrebbe quindi sembrare un azzardo, il modo migliore per farsi rispondere: la chiameremo noi, o addirittura per non essere mai convocati a colloquio.

E se invece non fosse così? Quando ho letto dell’iniziativa di Genitoricrescono, mi è sembrato un convincente passo nella direzione che secondo me è assolutamente quella da percorrere. Non “conciliare”, tentando di rimettere insieme i cocci di un’esistenza sempre parziale; ma (ri)conquistare una possibile unità di vita, nella quale aspirazioni, capacità e impegno concorrono tanto a formare una famiglia felice, quanto a raggiungere obiettivi professionali. Il senso che leggo nel CerVello di Mamma e Papà è questo: dichiarare senza timori di essere persone intere e indivisibili, smettere di relegare la dimensione familiare tra i problemi (sia pure risolvibili), rivendicare il contributo alla propria crescita e maturazione offerto non da corsi di formazione aziendali, ma dall’esperienza genitoriale. Aggiungere al curriculum questa esperienza (e magari neppure tra le “varie ed eventuali”, ma in un capitolo a sé: lo meriterebbe) significa ribadire la dedizione ai propri affetti, e insieme smentire il pregiudizio che la vorrebbe in conflitto con la disponibilità a perseguire obiettivi lavorativi. Continuare a spezzare le esistenze in due, evidenziandone una sola parte, non giova a nessuno: non ai lavoratori, costretti a trasformarsi in Dr. Jekill e Mr. Hyde; non ai datori di lavoro, danneggiati dalle loro stesse rigidità.

E poi? Aderendo all’iniziativa, ho scritto che nonostante tutto lo schema attuale del CV mi sembra inadeguato a descrivere la ricchezza dell’esperienza materna: ho fatto una certa fatica a “costringere” quest’ultima entro lo schema data – occupazione. Il passo successivo sarebbe dunque quello di rimettere in discussione la stessa forma del curriculum: di aprirlo, di rovesciarlo, di trasformarlo in una narrazione personale capace di includere tutto quello che ha generato e genera valore nella nostra vita. Questo significherebbe, d’altro canto, intervenire più in generale sul lavoro: sulla sua organizzazione, vincolata da lacci e lacciuoli vecchi di decenni; sulla sua impostazione verticistica e presenzialista, inefficiente perchè volutamente parziale; sul suo stesso senso, vincolato a parametri solidi quanto discutibili. Torno sempre a citare John Bowlby, lo psicanalista padre della teoria dell’attaccamento: “Le forze dell’uomo e della donna impegnate nella produzione dei beni materiali contano come attivo in tutti i nostri indici economici. Le forze dell’uomo e della donna dedicate alla produzione, nella propria casa, di bambini, sani, felici e fiduciosi in se stessi non contano affatto. Abbiamo creato un mondo a rovescio.” Ecco, prendere questo mondo a rovescio e rovesciarlo ancora è quello che dobbiamo fare.

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12 thoughts on “Paola Liberace: esternazioni sulle politiche di conciliazione”

  1. Ciao Silvia,
    Bell’approfondimento. Perché non riprendere il discorso, prima o poi, su queste pagine? Mi sembra si sia già tornati diverse volte sulle storie di genitori che, messi di fronte alle difficoltà di conciliazione, si sono dati da fare (non necessariamente mettendosi in proprio). Mi piacerebbe che oltre a parlare dei risultati si parlasse del metodo: tentando di rintracciare una strada praticabile anche per altri.

    Paola

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  2. Paola, magari si va un po’ fuori tema, ma hai toccato un argomento molto importante, quello delle forme alternative di soggetti economici.
    La forma cooperativa è uno dei grandi fallimenti del nostro Paese, se vogliamo una delle infinite occasioni sprecate. Oggi le cooperative di lavoro si risolvono in aziende mascherate che, con questo sistema, riescono ad impiegare dipendenti (spesso in ruoli esecutivi) al minimo delle condizioni economiche possibili e con garanzie praticamente inesistenti. La figura del socio lavoratore, in particolare con mansioni di livello operaio, è una fictio che maschera dei part-time sottopagati.
    Ne fanno le spese soggetti deboli e spessissimo madri che cercano un modo per reintrodursi nel mondo del lavoro. E li altro che parlare di skills nel cv! Siamo ancora a forme di reclutamento del personale che ricordano il caporalato.
    Spesso nei nostri blog siamo abituate a discutere quanto meno di lavoro impiegatizio, se non manageriale o tecnico di alto livello, perchè comunque i lettori del web sono persone di buon livello culturale. Però c’è molto altro e troppo spesso si nasconde dietro le cooperative.
    La forma sana di cooperativa, invece, sarebbe l’occasione per riprendere in mano le redini del proprio lavoro e delle proprie idee.
    Sono d’accordo con Paola, la forma azienda è (ancora?) inarchiviabile: l’organizzazione della libera professione non può coprire ogni realtà economica (è del tutto inadeguata a quella produttiva). Le altre forme si sono insabbiate in storpiature e strumentalizzazioni.
    L’azienda non è un soggetto economico di per sè inadeguato o negativo per chi vi lavora: è uno strumento neutro, come ogni strumento. I contenuti li fanno le persone e lavorare da dentro sui contenuti è un modo per cambiare la cultura.
    Che poi una cooperativa “vera” di donne e uomini, genitori consapevoli e desiderosi di attuare un’organizzazione interna del lavoro rispettosa del privato di tutti i soci, potrebbe essere un soggetto economico poderoso, su questo siamo perfettamente d’accordo.

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  3. Letizia: mi spingerei oltre. Una volta messa in discussione l’odierna forma azienda, si aprono diverse strade: quella libero professionale è senz’altro una delle principali. Ce ne sono altre, tanto quelle da percorrere individualmente, quanto collettivamente (penso ad esempio alle cooperative e alle associazioni). Ma la strada più difficile e impervia, e perciò stesso più necessaria, resta secondo me quella del ripensamento dell’organizzazione dell’azienda come la conosciamo.

    In altre parole, non credo che sia (ancora) possibile archiviare la forma azienda, che pure ha mostrato limiti storicamente evidenti, almeno nella sua versione fordista (tuttora viva e vegeta). Né credo che l’uscita dalle aziende rappresenti l’unica possibilità per metterne in discussione regole e dinamiche. Credo che, se una possibilità esiste di superare lo stato attuale delle cose – e in particolare la scissione personale che questo stato di cose ha introdotto nei lavoratori – sia quella di lavorare dall’interno, per suggerire alle organizzazioni vie di evoluzione alle quali le rigidità e le ingessature di cui sono preda impediscono loro di pensare (con conseguenti danni, non solo per i lavoratori “divisi a metà”, ma per le stesse aziende). Di nuovo, mi sembra che un’iniziativa come il CerVello agisca proprio in questo modo, introducendo un elemento di novità inaspettato e positivo.

    Paola

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  4. Serena,

    infatti non c’è contraddizione, io sono d’accordo con le idee di questa iniziativa e sul fatto che gli skills maturati nella vita, anche nella vita familiare, possano arricchire molto il profilo di una persona anche dal punto di vista lavorativo e vadano come tali presentati.

    Il problema non è teorico, secondo me, ma pratico, e nasce nel momento in cui ci si mette a scrivere un CV per presentare sè stessi, con tutte le proprie esperienze. In un mondo ideale le mie osservazioni sarebbero del tutto inutili e superflue, e se lo sono tanto meglio, però credo di poter dire che c’è ancora molto lavoro da fare sui CV. In pratica quello che sto cercando di dire è che dei CV che menzionino anche gli skills familiari potranno avere successo, e quindi portare cambiamento, solo se sono dei CV molto efficaci, andando quindi ben oltre l’elenco di meriti di studio ed esperienze lavorative (come invece spesso succede), e che questo aspetto non può essere sottovalutato.

    Comunque non credo basti un minimo di intelligenza per fare un buon CV, anzi nemmeno molta intelligenza, semplicemente è una cosa che si impara ma che nessuno insegna, quindi molto spesso i CV non rappresentano il vero potenziale della persona.

    L.

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    • Bene Letizia, allora avevo capito male il tuo punto di vista. E’ vero il CV bisogna imparare a scriverlo, non è sufficiente l’intelligenza. Anche se il buon senso di mettersi nei panni di chi lo deve leggere aiuta un pochino. In un altro mondo verrebbe insegnato a scuola. In un altro mondo…

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  5. Letizia però io non vedo proprio quale è il problema che poni.

    Scrivi: ”
    l CV è destinato all’azienda, e lo scopo ultimo deve essere di dire all’azienda perchè dovrebbero assumermi, quali problemi posso risolvere per loro, perchè io sono la persona giusta per loro.

    Dovrebbe essere una cosa molto scontata ma raramente lo è, troppo spesso scriviamo il CV per raccontare chi siamo, partendo da noi quindi, invece dovremmo partire dall’azienda, dalla sua necessità, i suoi problemi, i suoi obiettivi, spiegare se e come noi siamo la soluzione a quel problema/bisogno/obiettivo. Certo un CV scritto così richiede più impegno e sforzo, richiede non poco lavoro.”

    Io sono d’accordo con te, e non vedo però la contraddizione. Posso dire all’azienda che la persona di cui hanno bisogno sono proprio io, perché ho questi skills sviluppati in maternità. Ad esempio:
    Sono convinta di essere la persona più adatta al lavoro che offrite come segretaria di produzione. Ho studiato questo e quest’altro e durante i miei mesi di maternità ho imparato ad affrontare gli imprevisti e ad utilizzare la mia creatività per risolvere i problemi man mano che si presentavano. eccetera ”

    Ok, è solo un esempio, però voglio dire che siamo noi a doverci presentare come persone “intere” nel nostro CV dando valore a quello che siamo come persone. Precisando che siamo noi, come persone, che possiamo servire allo scopo dell’azienda che sta offrendo il posto di lavoro.
    Io credo che un CV fatto così abbia molte più possibilità di successo di uno che dica solamente i meriti di studio o di esperienze lavorative passate. Almeno se la persona addetta alle assunzioni ha un minimo di intelligenza.
    Non credi?

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  6. Paola,
    Ah beh, se la domanda è: “è l’azienda l’unico tipo di organizzazione del lavoro possibile?” allora sfondi una porta aperta e il discorso si fa veramente interessante! Già, la nostra società sembra dare per scontato che l’obiettivo sia lavorare per un’azienda, critichiamole quanto ci pare ma poi le vogliamo, perchè ci danno una parvenza di sicurezza. Una volta non era così, in altre parti del mondo non è così, ed è proprio mettendo in discussione questo assioma che si scatena la crescita e l’innovazione, sul piano personale e di riflesso sul piano sociale. Però questo ragionamento va ben oltre il tema del CV. Questo tipo di cambiamento può avvenire solo se parte dalle persone che vogliono creare alternative all’azienda, esponendosi in primo piano, fino a che il nostro obiettivo rimane quello di trovare posto nell’azienda inevitabilmente questa ha il diritto e il potere di scegliere e noi possiamo solo fare il possibile per essere scelti.

    L.
    http://www.bilinguepergioco.com

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  7. Ciao,
    io sono d’accordo con il concetto promosso dall’iniziativa “Il cervello di mamma e papà” e cioè che l’esperienza della genitorialità sia un plus e non un minus rispetto al bagaglio di skills individuali che possano interessare sia il mondo del lavoro che la collettività, però voglio fare una domanda provocatoria a tutti voi, una domanda che mi frulla nella mente da un po’ a seguito di situazioni di cui sono venuta a conoscenza. Che ne pensate di quelle donne (e forse ce ne sono più di quello che noi pensiamo) che si fanno mettere in maternità antipata senza un motivo valido solo perché hanno un contratto a tempo indeterminato e magari già un figlio all’attivo per cui non vogliono più laveorare fino almeno al settimo mese?
    Io, come ho detto più volte sia qui che sul mio blog, sono straconvinta che il congedo parentale sia un diritto sacrosanto che vada difeso, anzi migliorato e non voglio assolutamente difendere le aziende, però quando sento alcune che affermano candidamente di essersi fatte mettere in maternità anticipata mi sento come se avessero fatto un torto non solo all’azienda, ma a me in prima persona come donna che ha lavorato fino all’ottavo mese nonostante alcuni problemi, non gravi per carità, ma andavo al lavoro con la lombalgia anche se ci mettevo un quarto d’ora per fare un isolato (non da casa perché l’ufficio dista un’ora di auto + bus) e anche se, avendo un contratto indeterminato, avrei potuto godere di molti benefici.
    Voi che ne pensate?
    Grazie per lo spazio,
    StranaMamma

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  8. Letizia: Sono d’accordo, se si parla di azienda, e dell’azienda com’è strutturata oggi. Il punto è: è l’azienda l’unico tipo di organizzazione del lavoro possibile? La sua strutturazione odierna è la migliore (in termini di efficacia e di efficienza) che si possa immaginare? La risposta a entrambe le domande per me è negativa: non credo che quella aziendale sia la sola, né la migliore, tra le organizzazioni del lavoro – individuale o collettivo. A maggiore ragione, dubito che ad essere rilevante per la propria capacità lavorativa possano e debbano essere solo gli skill strettamente definiti in base alle esigenze di una siffatta organizzazione. Credo che sia il momento di cominciare non solo a domandarsi quale altra forma sia possibile, ma come operare concretamente per raggiungerla: in questo senso il CerVello mi sembra un buon primo passo.

    Desian: capisco il tuo disappunto… ma vorrei spiegare meglio il mio punto di vista. Non sono di mio una detrattrice dell’economia – tanto meno di quella di mercato -: ma credo che potenziare ed esaltare le facoltà dell’individuo, inteso come persona complessa, libera, consapevole e responsabile, possa riuscire di beneficio anche a questo tipo di economia. E a proposito, non sono solo i datori di lavoro che “comprano” una forza lavoro: è anche il lavoratore che “compra” un datore di lavoro, malgrado il fatto che in una congiuntura come quella attuale si tenda a dimenticarsene. Credo davvero che esserne coscienti possa giovare anche, banalmente, alla fiducia in se stessi durante un colloquio.

    Michela: non sai quanto ti capisco. Per me tutto (compreso il libro che ho scritto, e che si apre con la citazione che hai riportato) è cominciato con un rifiuto (reiterato) della richiesta di part time. Ho una carissima amica appena licenziata, dopo aver a sua volta ottenuto un rifiuto simile, perché incinta del terzo figlio ha perso il bimbo, e i suoi datori di lavoro non hanno voluto rischiare di ripetere l’esperienza. Come parlare di fiducia, di potenzialità, di un altro modo di lavorare possibile di fronte a questa realtà? Eppure, proprio tra noi che stiamo qui a parlarne ci sono persone che proprio in momenti come questi hanno trovato il modo e la forza di costruire un percorso alternativo. Io ci sto provando. Auguro anche a te di poterlo fare, il prima possibile, il più felicemente possibile.

    Paola

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  9. “Le forze dell’uomo e della donna impegnate nella produzione dei beni materiali contano come attivo in tutti i nostri indici economici. Le forze dell’uomo e della donna dedicate alla produzione, nella propria casa, di bambini, sani, felici e fiduciosi in se stessi non contano affatto. Abbiamo creato un mondo a rovescio.” Ecco, prendere questo mondo a rovescio e rovesciarlo ancora è quello che dobbiamo fare.

    certo…poi – con un bimbo di otto mesi- chiedi alla tua azienda una riduzione dell’orario di lavoro da 8 a 6 ore e ti viene risposto che c’è bisogno di massima flessibilita’ (minimo 1 anche 2 ore di straordinario al giorno) e disponibilita’ di tre sabati mattina al mese…diversamente puoi anche cercarti un altro lavoro.
    Riusciremo davvero a rovesciarlo?

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  10. Sono perfettamente d’accordo con Paola Liberace sul rovesciare un mondo rovesciato anche se ho l’impressione che, avendo messo l’economia a base fondamentale (se non esclusiva) della vita di tutti noi, e considerandolo anche normale, sarà molto difficile fare questo ri-rovesciamento. L’economia, la produzione di valore, la competizione, la ricchezza come fine (e qualche volta anche mezzo) sono gli orizzonti entro i quali ci muoviamo e che fanno il nostro esistere. Spesso non riusciamo a sganciare il nostro vivere da questo circuito chiuso infernale. Per me “far carriera” vuol dire costruire una serie di competenze, alcune mie alcune da vendere all’azienda per cui lavoro, metterle a frutto per il benessere mio e di chi mi sta vicino. Cercare di interessarmi delle questioni che riguardano la comunità in cui vivo, provare ad intervenire secondo le mie possibilità e capacità. Creare, coltivare e vivere i miei interessi, possibilmente anche scoprirne di nuovi, mescolare dentro il tempo un po’ di tutto. Senza separazioni, senza traumi, senza soluzione di continuità. Non sono (solo) le competenze dentro i CV che fanno il nostro profilo ma anche la capacità di lavorare/vivere con energia ed entusiasmo maggiori possibili.
    Questo è il messaggio per le aziende che invece intendono ancora, tranne rarissimi pioneristici casi, il lavoratore (dal gradino più basso fin al top manager da decine di migliaia di dollari al mese) solo limoni da spremere per il profitto. Così torniamo a competizione, skills, “cattiveria”, produttività, insicurezza. Potrei continuare. 🙁

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  11. Sono d’accordo sui fini, ma ho un punto di vista diverso sui mezzi.

    Lo scopo del CV non è raccontare una storia o affermare un’identità, lo scopo del CV non è dire chi sono io.
    Il CV è destinato all’azienda, e lo scopo ultimo deve essere di dire all’azienda perchè dovrebbero assumermi, quali problemi posso risolvere per loro, perchè io sono la persona giusta per loro.

    Dovrebbe essere una cosa molto scontata ma raramente lo è, troppo spesso scriviamo il CV per raccontare chi siamo, partendo da noi quindi, invece dovremmo partire dall’azienda, dalla sua necessità, i suoi problemi, i suoi obiettivi, spiegare se e come noi siamo la soluzione a quel problema/bisogno/obiettivo. Certo un CV scritto così richiede più impegno e sforzo, richiede non poco lavoro.

    Comunque è vero che l’azienda ha (sempre più) bisogno di persone, non macchine, persone con molti skills, alcuni dei quali effettivamente vengono sviluppati e ottimizzati quando ci si trova a prendersi cura di una famiglia, come del resto vengono anche sviluppati nelle varie attività sportive, associative o ricreative che vengono citate nei CV e nei colloqui senza alcuna remora.

    Il punto fondamentale però a mio parere è non perdere mai di vista il punto di vista dell’azienda, perchè poco importa se noi lo riteniamo giusto o sbagliato, rimane il fatto che è in base a quel punto di vista che si verrà valutati e selezionati.

    L.
    http://www.bilinguepergioco.com

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