In un post legato al blogstorming del mese scorso, la nostra amica StranaMamma, sul suo blog, rifletteva sul fatto che non può esistere una questione femminile avulsa da una questione sociale in cui anche il mondo del lavoro si renda conto che i carichi familiari si portano in due. Suo marito è uno di quegli uomini che vorrebbe un lavoro organizzato in modo da consentirgli di fare il papà senza rinunciare alle sue ambizioni, ma non trova sostegno o comprensione. Per questo le abbiamo chiesto di “prestarci” StranoPapà per un’intervista.
Carissimo StranoPapà, tua moglie, in un post di qualche giorno fa su Riflessi di Mamma, scriveva: “Io credo fortemente che la condivisione di oneri lavorativi e di cura tra i genitori porterebbe non solo benefici alle donne, ma anche a quegli uomini che vorrebbero poter essere più presenti nella vita dei figli, a quegli uomini cui tutti i giorni viene chiesto, più o meno velatamente, di scegliere tra famiglia e carriera (perché succede anche a loro) a quegli uomini che usufruirebbero volentieri di un po’ di quel congedo parentale concesso anche a loro per legge se ciò fosse davvero fattibile e non pregiudicasse pesantemente non solo il budget familiare, ma anche la propria posizione lavorativa futura, insomma a quegli uomini che si trovano nelle condizioni di StranoPapà.”
Partiamo da qui: gli uomini che fanno intendere di voler fare concretamente i padri, sono discriminati o mobbizzati sul lavoro? A te come è andata?
Descrivo due esperienze che mi sono capitate e che assumerei quali mie esperienze “tipo”:
1. mi è stato proposto un incarico che avrebbe valorizzato le mie competenze e mi è stato chiesto di valutare la possibilità di assumerlo anche in relazione all’impatto che avrebbe avuto sulla mia vita famigliare. Ho confermato la mia disponibilità e mi sono stati quindi richiesti risultati che mi hanno impegnato anche in momenti normalmente dedicati alla famiglia, però al contempo mi è sempre stato permesso di organizzare la mia logistica secondo le mie possibilità (ad es. non uscivo troppo tardi la sera e compensavo in altri momenti quali sera/notte o weekend):
2. non mi è stato proposto nessun incarico dando per assunto che per me l’aspetto logistico e di disponibilità di orario sarebbero stati un problema. Mi è stata fatta solo una domanda velata dopo diversi mesi per confermare tale valutazione a priori e confermare l’opportunità di tenermi da parte.
Anche se l’esperienza di tipo 1 non è ideale ed andrebbe meglio circoscritta nell’ambito di un più corretto equilibrio casa/lavoro, purtroppo l’esperienza che mi è capitata più spesso e che ritengo più frequente nel nostro Paese sia quella di tipo 2, caratterizzata da una valutazione a priori sugli impatti che gli impegni famigliari hanno sulla disponibilità sul lavoro, senza valutare l’effettiva capacità delle persone di raggiungere gli obiettivi.
Usufruire del congedo per paternità è quasi più penalizzante da un punto di vista carrieristico di quello che può essere la maternità per una donna?
Mi limito a ragionare sul congedo di paternità: non ho mai conosciuto un uomo che l’abbia preso, penso che non sia neppure immaginabile in un contesto di colleghi senza famiglia o che non la seguono adeguatamente. La dimostrazione è l’enfasi posta sui 3 giorni di paternità obbligatoria (ribadisco l’unità di misura: giorni, non settimane nè tantomeno mesi come capita nei Paesi più sviluppati sul tema) in fase di introduzione in Italia.
Quali sono le difficoltà maggiori che il tuo lavoro frappone al tuo desiderio di paternità piena e presente?
Il lavoro chiede disponibilità di orario e mobilità piena ed assoluta, anche a fronte di non evidenti necessità (es. bisogna rimanere in ufficio fino a tardi anche se non c’é nulla da fare, oppure si decidono oggi le trasferte per domani con relativi orari). Un altro problema meno evidente è il cibo: mangiare a pranzo nella pausa contrattuale è in realtà considerato un lusso (sempre anche se non si ha nulla da fare), ne consegue che bisogna cercare di mangiare sereni a cena e colazione, con conseguente impatto nuovamente sui figli che richiederebbero la loro parte di attenzione e disponibilità. Il desiderio di paternità piena e presente troverebbe a mio avviso grande beneficio dallo sviluppo della capacità delle aziende di organizzare il lavoro per obiettivi, in luogo dell’organizzazione “per presenza” ancora molto diffusa.
Questo disagio lo condividi con altri padri, o ti senti isolato nella tua cerchia di conoscenze nel manifestare il bisogno di essere più presente con i tuoi figli?
Condivido spesso il disagio ma credo di essere abbastanza isolato nel cercare soluzioni: spesso gli altri padri reagiscono relegando la famiglia al tempo lasciato dal lavoro (senza porre limiti all’occupazione di tempo da parte del lavoro) oppure in casi meno frequenti eliminando interamente le ambizioni sul lavoro. Il tentativo di gestire il lavoro recuperando i propri spazi per la famiglia ma al contempo coltivando le giuste ambizioni è un fenomeno isolato e ritenuto spesso ambiguo (es. “decidi cosa vuoi fare”, “preferisci dedicarti alla famiglia o al lavoro?”).
Ho forse descritto gli elementi che ritengo peggiori della condizione sul lavoro dei padri di famiglia: penso però che ragionare sugli ambiti di possibile miglioramento possa essere utile per aiutarci a migliorare.
Ma allora, uomini e donne, non patiscono esattamente gli stessi aspetti dell’organizzazione del lavoro aziendale? La mentalità secondo la quale si deve scegliere o la famiglia o la carriera, non penalizza tutti allo stesso modo? Quelle che sembrano battaglie femminili, non sono allora le battaglie in cui dovremmo impegnarci tutti, come sosteneva Serena anche qui?
@ StranoPapà : la telefonata coincideva con l’orario di normale uscita, oppure andava oltre ?
Dai commenti leggo molta condivisione sulle mie riflessioni, credevo di essere un po’ esagerato ma mi pare che questa esagerazione sia una situazione piuttosto diffusa. Riguardo la presenza sul posto di lavoro, porto ad esempio una mia esperienza consueta (che ho sperimentato con capi diversi, soprattutto nei momenti di prima conoscenza): nessun contatto durante il giorno, poi una chiamata alle 18 o alle 19, scrupolosamente sul telefono fisso e con una motivazione poco sostenibile (o addirittura una reazione sorpresa del capo per avere ricevuto riposta). Devo però dire che con capi sufficientemente intelligenti e professionali queste situazioni non si sono presentate o si sono trasformate rapidamente in rapporto di fiducia, purtroppo però questo risultato deriva dal rapporto individuale e non da una cultura aziendale diffusa; poi c’è una buona parte di capi che come unico metro di valutazione riesce ad utilizzare la telefonata serale…
Sulla base della mia esperienza, manifestare sul posto di lavoro la propria volontà di essere un padre presente per i propri figli crea necessariamente problemi. Esiste una discriminazione per le donne, che vedono rallentare la propria carriera in caso di gravidanza, ma da un certo punto di vista c’è un’accettazione che ha origini direi “biologiche” (il parto, l’allattamento, ecc.).
Agli uomini, invece, non si perdona. E sono proprio gli altri uomini a fartelo pesare (di solito i “capi” sono altri uomini). Perchè di solito sono di altre generazioni, hanno una mentalità completamente diversa, e non riescono ad accettare questa voglia di fare il padre (non per niente molto volte si usa la terribile parola “mammo”). Sembra che li metta in discussione o, comunque, si crei una contrapposizione tra due visioni dell’essere uomo. Altri sono, invece, convinti che in realtà tu non lo vorresti fare ma è tua moglie che ti comanda e ti obbliga ad avere certi comportamenti.
A questi atteggiamenti si unisce un enorme problema organizzativo nel mondo del lavoro. Se ragionassimo per obiettivi e per progetti, saremmo valutati per quello che otteniamo e per le scadenze rispettate e non per il solo fatto di essere presenti sul posto di lavoro 10 ore invece che 8. La presenza è quella che conta, perchè “qualcuno potrebbe volere qualcosa” alle 19. Sapppiamo bene che moltissime volte chi rimane in ufficio fino a tardi ha durante la giornata dei ritmo molto più lenti e con un numero maggiore di pause caffè.
Potrei raccontare diversi episodi che mi sono capitati. Uno su tutti: qualcuno ha avuto il coraggio di dirmi, ricevendo ovviamente una mia dura replica, che sembravo poco motivato perchè uscivo in orario.
Diciamo, comunque, che anche l’universo femminile è variegato. Conosco donne che non perdonano alle proprie collaboratrici di decidere di fare un figlio o che rientrano in ufficio a pienissimo ritmo appena dopo il parto contornandosi di tate e nonni a casa per farsi crescere i figli.
A inizio marzo avevo scritto un post sul mio blog proprio su questo tema “BABBI IN CARRIERA O QUASI” perchè lo sento molto vivo nella mia vita:
http://babbonline.blogspot.it/2012/03/babbi-in-carriera-o-quasi.html
Wow, grazie Paolo (blush)
“Il ragionamento da fare secondo me è: immaginiamo di voler risolvere un caso di omicidio. Puoi scegliere fra un ispettore che lavora 20 ore al giorno, e uno che ti risolve il caso.”
Credo che questa tua affermazione racchiuda alla fine tutto quanto, complimenti. E’ da questo punto che bisogna partire per la riforma del lavoro nel nostro paese.
@ Barbara, avevo iniziato a notarlo anch’io 😀
La mia piccola esperienza è di ricercatrice universitaria in Italia, dove il telelavoro è la regola. Di presenza per coordinamenti amministrativi ne basta tutto sommato poca, ma fra collaboratori scientifici è normalissimo fare riunioni su skype alle 21.30. Quello che conta è la produttività.
Poi ovviamente ci sono tante storture, caporalato intellettuale ecc., ma gli unici provvedimenti che vanno nel senso giusto sono quelli della valutazione di quanto pubblichi.
Invece una delle proposte più insensate è proprio quella
“brunettiana” di inserire il timbro del cartellino anche per gli accademici, così come per i magistrati e altre categorie accusate di essere fannulloni statali……. perché usano il telelavoro!!!
Il ragionamento da fare secondo me è: immaginiamo di voler risolvere un caso di omicidio. Puoi scegliere fra un ispettore che lavora 20 ore al giorno, e uno che ti risolve il caso.
@close : si purtroppo è proprio così, tuo marito ha la fortuna di lavorare oltralpe; in Italia per ora è solo nelle chiacchiere di 4 politici insignificanti.
Poi chiaramente dipende dalla tipologia di lavoro come dicono altri utenti però in tanti casi la flessibilità è possibile, basta sedersi ad un tavolino e parlarne.
@Close, la telepatia che abbiamo sviluppato in questi ultimi post comincia a preoccuparmi 🙂
@IlMioSuperpapà concordo al 100%
Secondo me proprio questa organizzazione del lavoro spinge i superiori ad avere un atteggiamento generalmente peggiore verso la donna, appunto perché starà assente e quindi tradisce l’azienda.
Riequilibrando i tempi di congedo obbligatorio penso che l’atteggiamento verso gli uomini cambierebbe, nel senso che secondo me anche loro verrebbero pesantemente messi di fronte alla scelta “O lavori oppure fai figli”.
Proprio per questo però credo che da parte dei nostri politici ci sia tutto l’interesse a mantenere le cose come stanno: non si concepisce veramente che un uomo possa desiderare stare di più con i figli di quanto si faccia generalmente – ma soprattutto credo che non si concepisca un “tradimento” verso l’azienda e quindi non viene contemplato.
L’unica soluzione sarebbe il telelavoro. Forse a mio marito glielo concederanno di nuovo, pur avendo un posto di responsabilità – ma appunto lavora oltralpe.
Concordo pienamente su certi perversi meccanismi tipici della visione del lavoro in certi settori e luoghi italiani: lavoro = passare almeno 10 ore in ufficio, anche se poi per concludere in maniera serena quanti ti è affidato le 8 ore contrattuali sono più che sufficienti. Questo è determinato dal concetto di urgenza perenne rispetto invece ad attività non solo programmabili, ma spesso tranquillamente gestibili “il giorno dopo”.
Oltre a questo sono convinto che si debba fare un grosso passo avanti generale su alcuni temi culturali: la flessibilità dell’orario di lavoro in primis. Su questo punto ci sono direttive Europee, del Governo e un interessantissimo Libro Verde della Regione Lombardia che richiamano la Aziende a cambiare mentalità. Oggi molti lavori potrebbero essere impostati in maniera molto più “libera” con tempi e modi affidati alla responsabilità del dipendente, il quale poi giustamente va valutato in base ai risultati e alla produttività. Conosco aziende illuminate che permetto di lavorare da casa e forniscono i supporti tecnologici per farlo e hanno “scoperto” che la produttività dei dipendenti è aumentata. Ho letto che un’altra azienda (un’importante multinazionale) ha tolto l’obbligo della timbratura (il dipendente segnala solo la presenza in uff.) e dopo una sperimentazione di 6 mesi ha verificato anche qui non solo un aumento della produttività, ma soprattutto un maggior attaccamento al lavoro – e all’azienda – perchè è stato ridotto il grado di complessità e di stress legato al conciliare famiglia e lavoro.
E’ pur vero (e qui non ci si può nascondere dietro un dito) che certi gradi di responsabilità e certi lavori implicano necessariamente presenze e coinvolgimenti che non si concilieranno mai con una presenza di un certo tipo in famiglia. Ma qui, a mio avviso, si entra anche nel campo delle scelte personali (tutte comprensibili).
Personalmente sono convinto che il trinomio produttività, soddisfazione (sia del dipendente che dell’azienda) e famiglia possa funzionare solo se si genera una nuova e vera “alleanza” tra azienda e dipendente:il lavoro deve in un certo senso sapersi adattare alle trasformazioni che la società genera e che nessuno può fermare. Ma qui servono manager illuminati che sappiano andare oltre il contingente e sappiano dare il peso giusto a quello che conta: professionalità, competenze, responsabilità, soddisfazione e produttività.
A me capita di dover prendere permessi per situazioni legate ai bambini o addirittura di stare a casa. Se ho scadenze urgenti lavoro da casa, mi ritaglio spazi per fare ciò che serve, ma paradossalmente non lo devo dire perchè ufficialmente non sono sul posto di lavoro.
Purtroppo siamo in un Paese che su questi temi a mio avviso è ingessato e legato a stereotipi del passato. Mi auguro soltanto che i nostri figli possano trovare condizioni diverse e sono convinto che questo dipenda molto da noi.
La mia speranza è che si possa uscire dall’isolamento di cui parla Stranopapà per creare condivisione su certi temi davvero cruciali.
Trovo davvero questo articolo “importante” e condivido in pieno tutti i pensieri e le riflessioni di questo padre. Anche io (padre di due meravigliosi bambini ) mi ritrovo nella stessa situazione, con la differenza oltretutto che la mia tipologia di lavoro permetterebbe senza nessun problema una parte di Telelavoro o lavoro da casa in orari fuori dalla normalità, ma non viene visto bene dai datori di lavoro italiani ( che ho trovato fino ad oggi ) ; condivido in pieno il discorso dell’orario “fino a tardi” come se a 39 anni ( di cui 18 di lavoro ) ho bisogno di essere “controllato”. Bisognerebbe per prima cosa fa entrare nelle teste dei vari dirigenti italiani il discorso “raggiungimento degli obiettivi” che purtroppo sembra sfuggire; e comunque rimango dell’idea che se una persona si ritrova a dover lavorare 12 ore al giorno, il sabato, la domenica, significa solamente che non è in grado di gestire bene il proprio lavoro. Io continuo a sperare di trovare un giorno una azienda/società “aperta mentalmente” e capace di capire anche i bisogni dei propri collaboratori. Trovo assurdo e stupido che una persona debba per forza scegliere tra famiglia o lavoro, sono due componenti indispensabili nella vita moderna che possono tranquillamente coesistere senza che l’una comprometta l’altra. E’ solamente una questione di cultura lavorativa che i nostri industriali purtroppo ancora non hanno ed è anche per questo che secondo me la situazione economica italiana è grave e malata.
i padri che reagiscono relegando la famiglia al tempo lasciato dal lavoro (senza porre limiti all’occupazione di tempo da parte del lavoro) in genere hanno la moglie a casa che pensa ai bambini e prepara pranzetti. gli stessi poi ti dicono che per lei fare la casalinga “è stata una libera scelta”.
Beh, se è per questo io avevo orde di colleghi che arrivavano in laboratorio dopo le 10 di mattina e poi pretendevano di piazzare le riunioni dopo le 17, tanto loro almeno fino alle 18 dovevano rimanere…
Per tornare alla domanda di Silvia alla fine dell’intervista, la mia risposta è per un certo verso si e per un altro no. Il problema secondo me può apparire lo stesso, ma l’atteggiamento dei superiori e dei colleghi è profondamente diverso. Le aspettative nei confronti di un uomo e di una donna sono opposte: da una donna ci si aspetta che le esigenze della famiglia vengano prima, da un uomo che venga prima il lavoro. Quindi un uomo verrà osteggiato se vuole stare a casa, e deriso se palesa il suo desiderio di fare il papà attivamente; una donna verrà criticata e osteggiata se vuole far carriera. Anzi, dopo anni di allenamento in questo senso nessuno ci pensa proprio neanche un attimo, si fa e basta.
In entrambi i casi non c’è spazio per la scelta personale, per le situazioni familiari particolari e manca totalmente il rispetto per l’individuo, siamo d’accordo, ed è ugualmente umiliante e frustrante. Sono anche totalmente d’accordo che la visione del lavoro in genere in Italia è allucinante e basterebbe un cambiamento di punto di vista per rendere il tutto molto più vivibile e di riflesso efficiente.
Quello che rende la situazione femminile secondo me più grave è che questo sistema di rigida divisione dei ruoli funzionava finché uno stipendio a famiglia bastava. Ora non è più così le donne si trovano a dover fare tutte e due le cose…
Eccerto che è un problema, fatemelo sottolineare, tutto italiano, la presenza a far nulla in ufficio per dimostrare impegno. In Olanda questa sarebbe vista come mancanza di efficienza: se non esci alle 17 dal lavoro, vuol dire che non ti sai organizzare e nel resto del giorno non hai fatto un tubo, quindi uno così inefficiente non viene preso in considerazione epr una promozione (tranne mio marito che lavora mattina, sera, notte e weekend e non si capisce perché nessuno se ne accorga o lo apprezzi).
Ultimamente ho fatto corsi di interculturalità a due manager provenienti da Milano che lavorano per una multinazionale olandese: la prima cosa che gli si è spiegato è stata questa, e uno dei due ha riferito che i primi giorni che l’ altro collega era appena arrivato, il poveretto gli si è precipitato in ufficio dicendo preoccupato: “ma che sta succedendo, nel mio ufficio se ne stanno andando via tutti?” al che è bastato rassicurarlo: “niente di grave, sono le 17, abituati e comincia ad andartene anche tu”.
Il punto è che se ci mettessimo una mano sulla coscienza, pochissimi lavori davvero sono una questione di vita o di morte se invece di finire il lavoro stanotte lo riprendiamo con calma domattina. Quando succede `e sempre o quasi colpa di organizzazione ottimista, imprevisti – che spesso si sa che ci possono essere e andrebbero semplicemente inseriti nella pianificazione – o disastri imprevedibili per i quai nessuno davvero ti può dire che è colpa tua che ti sei organizzato male. Che io sia la prima a dire che 24 ore sono elastiche e ci puoi fare di tutto e di più, tanto dormire a che serve se hai una deadline? nulla toglie alla giustezza dell’ assunto. Ora però bisogna introdurre il concetto e renderlo accettato su larga scala. E qui una belle Pubblicità & Progresso, o un piano mirato dal’ alto farebbero miracoli.