“Mamma, perchè quel signore sta lì seduto?”
“Chiede l’elemosina?”
“Cioè?”
“Chiede delle monete: forse non ha lavoro o forse non ha casa, comunque è povero.
Allora attende che le persone che passano abbiano qualche soldo da dargli”
“E noi?”
“La mamma non dà soldi in elemosina, ha fatto una scelta tanti anni fa. E finché le sembra di stare portandola avanti continuerà a dover dire di no”
Sperando di non offendere la sensibilità di nessuno, volevo iniziare la mia riflessione sul perché non do l’elemosina (e lo insegno ai miei figli) con la citazione di uno slogan della Caritas Italiana che risale ai primi anni ’80. Lo slogan diceva “Contro la fame, cambia la vita”. E’ uno slogan che va sicuramente contestualizzato nelle gravi carestie di quegli anni, nell’enorme siccità del territorio del Sahara, nelle prime campagne di cooperazione internazionale e anche, appunto, nei primi anni della Caritas, con la portata rivoluzionaria di alcuni profeti che la abitavano.
E’ uno slogan che, per me, è un monito fondamentale, perché mi fa considerare me stessa ancora in perenne cammino, in costante e imperfetta evoluzione su questa terra. E’ uno slogan che riassume un atteggiamento rispetto alla povertà.
Posso allontanarmi dal povero con disprezzo, quasi fosse un intoccabile. Posso avvicinarmi per sentirmi potente nella mia possibilità di dare. Posso infine lasciarmi interrogare.
Più potente la domanda, meno valore sembra avere la risposta. Per cui non parlerò delle mie risposte, delle mie scelte individuali e familiari dovute al mio sentire rispetto alla domanda del povero, dei poveri, delle povertà del mondo.
Quello che voglio provare a farvi capire è che, per me, dare l’elemosina sarebbe quasi un tentativo di zittire la domanda, di fare finta di non sapere che (spesso) in assenza di un progetto che sostenga gli individui più fragili – quelli in cui si sono dissolti uno dopo l’altro non uno ma diversi degli anelli della struttura che ci tiene in piedi (la famiglia d’origine, la famiglia creata, il lavoro, gli amici, la casa, i soldi, gli hobby, le passioni, gli studi, i vestiti, la salute, il cibo che ingeriamo, i libri che leggiamo, la capacità di moderare le dipendenze da alcool, gioco, droghe o medicine …) – il denaro che lasciamo nella scatola o nel bicchiere di turno può avere vita breve. Può essere stato, solo, appunto, una porta chiusa davanti a un disagio.
Con questo non intendo dire che è un atteggiamento universale, che non ci siano persone che danno ed entrano in relazione. Al contrario. Dico però che l’una e l’altra è meglio se vanno di pari passo. E che se c’è un insegnamento “tipico” di questa famiglia è quello di lasciarsi interpellare dal disagio che attraversa il mondo, nelle sue diverse forme e di provare a dargli delle risposte che ci coinvolgano, che non siano solo un modo di tacciare quello che davvero può farci paura o destabilizzarci.
Le risposte sono, ve lo dico con certezza (la presunzione non è tra i miei difetti!) meno potenti della domanda, ma – spero – più rumorose del tintinnio di una moneta sul piattino dell’elemosina.
– di Silvietta –
Purtroppo durante la mia prima gravidanza mi sono ritrovata in serie difficoltà economiche e di fronte all’incapacità dei servizi sociali della mia città di accogliere le mie richieste ho elemosinato per diversi mesi all’esterno di chiese e di supermercati. Oggi per fortuna le cose sono cambiate, ho un lavoro e una bellissima casa da offrire ai miei figli, ma nel mio cuore non dimentico le difficoltà affrontate e soprattutto non smetto di ringraziare tutte le persone che, senza farsi troppe seghe mentali, una monetina alla volta mi hanno permesso di sopravvivere in quei giorni durissimi.