Nicola e Sarolta sono bambini quando, in una maniera che non possono immaginare, una violenza più grande anche degli adulti che hanno intorno ne sconvolgerà le vite. Vite che, malgrado i chilometri e gli anni che li separano, pure si incontreranno per scoprire – tra le altre cose – che si può fare a meno della violenza, come della speranza di sopravviverle: ci sono gli altri, il loro aiuto e le loro storie.
Il romanzo di Fabrizio Silei ha il coraggio di raccontare, con la deformazione che la cronaca ha se vista con gli occhi di un bambino, come nascono molte violenze quotidiane anche nell’ambito familiare, e come a esse si aggancino le più grandi violenze della Storia, quella con la s maiuscola. Non c’è bisogno di molta fantasia per legare gli eventi, grandi e piccoli, tra loro, perché sono i personaggi a portare con sé la capacità di eternare la quotidianità e di rendere presente in casa il grande fenomeno storico. Non servono strutture narrative particolari: sentimenti e Storia sono fatti per andare d’accordo, è necessario – qui sta l’abilità del narratore – formulare le domande più adatte a farli incontrare. E i bambini, si sa, sono bravissimi a fare domande.
«Come si fa a raccontare? E quand’è che iniziano le storie?» «Hai visto che mondo c’è la fuori? Non voglio che le accada nulla di male, capisci?» «Ma come si fa a cadere in una vasca più alta della propria altezza?» «Non dire niente alla mamma e a Mara che ti ho fatto sparare, intesi?» «Nicola, non devi dire nulla… lo capisci? Se papà viene a saperlo, questa volta l’ammazza di botte, lo capisci?» «Perché non ha lasciato me perdere?» «Avevo promesso a papà di ascoltare e non lasciare mamma da sola, ma oramai… come facevo a non obbedire?» «Possibile che nessuno mi rispetti più in questa casa?» «Cosa vale vita senza libertà?» «Che uomini saremmo stati altrimenti?» «Dove ci portano? Dove ci portano?» «Quando aveva iniziato, papà, a essere geloso e protettivo oltre ogni dire? Com’era avvenuto che il cerchio della sua vita si restringesse giorno dopo giorno intorno a noi e alla casa, fino a soffocarla?» «Mi proteggerai bambina mia?» «Perché, perché tua madre mi ha fatto questo? Lo sai tu perché?» «Hai un altro! Ecco perché! Lo sapevo, hai un altro vero?!?» «Una famiglia felice?»
Nemmeno con un fiore è un romanzo pieno di domande, perché i romanzi insegnano a cogliere il mondo come una domanda. «La conoscenza è l’unica moralità del romanzo», dice ad esempio Milan Kundera, e la conoscenza che prova ad esplorare il lavoro di Silei può essere molto dolorosa, non solo per un bambino. Può essere complicato anche metterla in parole, nero su bianco, perché come dice nel racconto una bambina ungherese, «la verità è ovunque, è nei gesti delle persone, nelle loro parole». E la verità, ci viene raccontato, è fatta anche di un desiderio inesauribile di solidità negli affetti, del dolore di abbattere i propri idoli, della difficoltà del ruolo paterno, della facilità con la quale s’impara a essere violenti, della banalità del male.
Quando, spero, leggerete questo coraggioso romanzo – lo so, l’ho già detto, ma la parola è quella – che è catalogato “a partire da 11 anni” e che andrebbe letto soprattutto da tanti uomini adulti, sicuramente quel giorno, da qualche parte nelle notizie di cronaca, ci sarà la notizia di un bambino che ha subito violenza, o che ha assistito a violenza – imparandola. A questo serve la conoscenza che portano i romanzi, che porta questo romanzo di Fabrizio Silei; essi rimangono più della cronaca a testimoniare di altre storie e altre persone, a raccontare che si può sfuggire alla violenza, la si può riconoscere e se ne può uscire, «fino a che non verranno tempi migliori».