Chiara è un’orientalista, esperta di ebraismo, lavora nel sociale a contatto con persone che provengono da Paesi in situazione di emergenza. Ha una famiglia mutlietnica e vive in prima persona l’integrazione tra religioni come unione di culture.
Colpite da un suo post su Yeni Belqis, le abbiamo chiesto questo guestpost, per capire quanto l’alimentazione sia un fatto di cultura e quanto la conoscenza degli altri passi anche dalla comprensione di quello che mangiano
La prima volta che mi sono resa conto, con un vago senso di capogiro, che le norme alimentari a carattere religioso (e simili) non erano una questione meramente accademica ma una realtà concreta, non priva di qualche complicazione, mi trovavo alla festa di laurea di un amico ebreo (convertito). Tra gli invitati: ebrei ortodossi, musulmani, vegetariani, parenti siculi (anch’essi con la loro religione in fatto di cibo), più allergici e intolleranti assortiti. La quadratura del cerchio, strano a dirsi, fu trovata al ristorante indiano.
Le principali religioni non cristiane presenti nel nostro Paese (ebraismo e islam in primis, ma anche buddhismo e induismo) si caratterizzano per i loro articolati precetti alimentari, alcuni più noti (gli ebrei non mangiano maiale, i musulmani neanche e in più non bevono neanche alcolici), altri obiettivamente più complessi e meno conosciuti. Il quadro si complica, tra l’altro, perché non tutti i fedeli di una stessa religione hanno lo stesso grado di osservanza delle regole, che peraltro possono anche differire leggermente a seconda di luoghi, epoche e scuole interpretative. Un vero ginepraio.
Embè? – direte voi. – Lo sapranno loro cosa mangiare, non è mica affar nostro. Sì e no. Un’infarinatura generale non può che far bene, a voi e ai vostri figli. Non è più una possibilità così remota, infatti che un compagno di scuola, un amichetto, ma anche un collega o una persona che vi trovate a frequentare per un motivo o per l’altro pratichi questa osservanza, che nelle nostre società secolarizzate appare desueta e poco comprensibile almeno quanto indossare il velo.
Aggiungo che, a volte, questa mancanza di banali informazioni tecniche rischia di creare fraintendimenti antipatici e di alimentare pregiudizi. Tempo fa mi trovavo a fare una lezione sull’ebraismo a una classe di un istituto superiore di un paese dei Castelli Romani. Si parlava di norme alimentari e, in particolare, del divieto di mischiare in un pasto derivati da carne con derivati da latte, da cui consegue la divisione piuttosto frequente nei piccoli ristoranti e locali tra quelli che servono cibi a base di carne e quelli (solitamente bar e pasticcerie) che servono latticini. Qui una ragazza ha un’illuminazione: “Ah, ma allora era per questo!”. E mi racconta che alcune settimane prima lei e la sua famiglia erano capitati a mangiare in un ristorante kasher (“Molto buono, tra l’altro!”), ma che a un certo punto il fratello piccolo aveva iniziato un capriccio per avere un gelato. Appurato che nel locale non se ne vendevano, il padre si era alzato e aveva comprato un cono alla vicina gelateria. A quel punto però i proprietari del locale li avevano pregati con garbo di non sedersi nuovamente a tavola con il gelato, ma di consumarlo su una panchina di fronte. La richiesta, motivata da banali regole tecniche (a partire dal necessario rispetto dell’osservanza degli altri clienti, a garanzia della quale il rabbinato certifica peraltro l’idoneità o meno dei locali), era apparsa alla famiglia digiuna di ebraismo assolutamente incomprensibile e persino sgradevole. “Abbiamo pensato che fosse per ripicca per il fatto che non lo avevamo comprato da loro. E dire che avevamo mangiato in cinque, quindi ci pareva proprio una meschinità”. Da qui all’ebreo avaro (con naso adunco) voi capite che il passo è breve.
Nelle scuole esistono, da tempo, i menu religiosi. Mia figlia, per una scelta fatta da suo padre e me, alla materna riceve il menu islamico. E’ un menu diverso come tanti altri: la maggior parte dei bambini che si avvalgono di questo genere di opzioni sono allergici o gravemente intolleranti e le mense scolastiche sono ormai avvezze a gestire la cosa con relativa disinvoltura. Nel nostro caso, il fatto che diversi bambini abbiano il pacchettino pasto personalizzato ha fatto sì che Meryem sia ormai convinta di essere allergica al maiale (chissà se per sua deduzione o perché le è stato suggerito così). Da un certo punto di vista, questa confusione mi infastidisce, perché mi pare una banalizzazione, impastata di allarmismo inutile. Io preciso sempre a Meryem che lei non è allergica al maiale. D’altra parte (ma qui forse sono strana io) qualunque spiegazione razionale di queste norme (alzi la mano chi non ha sentito sostenere, almeno una volta, che i musulmani non mangiano maiale perché le temperature elevate del deserto rendeva pericoloso il consumo di questo tipo di carne) mi appare, alla luce dei miei studi storico-religiosi e della mia esperienza, imprecisa e persino fuorviante. L’osservanza religiosa non è e non deve avere una giustificazione, sia essa storica, salutista o economica. Quindi non so se ha molto senso cercare di spiegarla ai nostri curiosissimi figlioli (immaginatevi per un attimo da quali e quante domande vi trovereste tartassati: “Ma perché gli ebrei non mangiano anguille? E i granchi? Ma il panino di Mc Donald’s non mischia carne e latte? La Coca Cola è kasher? Il cavallo i musulmani possono mangiarlo? E PERCHE’?”).
Per quanto mi riguarda, credo che questo genere di diversità si assimilino e metabolizzino solo con l’esperienza diretta. Se i vostri figli frequenteranno case musulmane, potranno scoprire da soli (e spiegarvi) molti dettagli, con l’indubbio vantaggio che le domande astruse saranno rivolte a qualcun altro. Per quanto riguarda il nostro compito di genitori, invece, credo che si possa riassumere in due obiettivi principali, in qualche modo propedeutici a un rapporto sereno dei nostri figli con la pluralità.
1) Non ridicolizzare. Mai. Anche se la nostra sensibilità è lontana mille miglia dalle norme in questione. Delle religioni altrui non bisogna aver timore, ma il rispetto è sempre dovuto.
2) Insegnare ai nostri figli l’attenzione per le esigenze degli altri, comprese queste. Se un amichetto è musulmano o ebreo, quando si organizza una festa cerchiamo di ricordarci (insieme ai nostri bambini) di fare un gesto di considerazione nei suoi confronti prevedendo nel rinfresco anche cibi adatti a lui (a volte basta davvero pochissimo: fare attenzione a comprare pane in cassetta senza strutto, evitare i salumi in qualche panino). Senza enfatizzare eccessivamente, si può però cogliere occasioni come queste per educare alla considerazione e al rispetto per l’altro.
Concludo con un ultimo aneddoto. La prima estate che, dopo la burrascosa separazione da mio marito, trascorrevo insieme al mio attuale compagno (turco) sono stata ospite di una splendida amica palermitana, che ci ha aperto la sua casa, senza commenti, senza giudizi, con l’affetto di sempre. Il primo giorno era in cucina a preparare una pasta al forno con tutti i crismi, da siciliana vera. Pensai che naturalmente Nizam avrebbe dovuto farne a meno, dato il prosciutto e il soffritto di vario genere suino che costituiva parte integrante della ricetta. Non avrebbe comunque sofferto la fame: la tavola traboccava comunque di verdure, pesce, formaggi di ogni genere… Quando ci siamo seduti a tavola, con mia grande sorpresa, ho visto che le teglie di pasta al forno erano due: una con e una senza maiale. Ripenso spesso a quel pranzo, che mi ha dimostrato ancora una volta come l’accoglienza, fatta di piccoli gesti silenziosi, si traduca in un vantaggio per tutti (alla fine anche noi “infedeli” abbiamo mangiato il doppio!).
– di Yeni Belqis –
Un bel tema, e fortunati i bambini di oggi che – soprattutto
se hanno genitori sensibili- hanno la possibilita’ di confrontarsi con le differenze e conoscerle sin da piccini.
Nove mesi a Gerusalemme sono stati un bel corso accelerato in questo senso: al corsetto di ebraico frequentato da musulmani ed ebrei, dopo accese discussioni politiche, comunque nelle occasioni conviviali i due gruppi erano super attenti l’uno alle esigenze alimentari dell’altro.Io me la cavavo con cibo vegetariano per tutti.
Fortuna che i falafel mettono tutti d’accordo 😉
Un post decisamente interessante,Chiara. Gli aneddoti illustrano più di mille minuziose spiegazioni teologiche che con la tua preparazione avresti sicuramente potuto regalarci.
Lo commento con queste riflessioni. Non sono mie, ma di mio figlio:
“Non bisogna aver paura della diversità. Secondo me la diversità fra i vari popoli è la diversità fra i popoli diversi e basta. Uno che è diverso da noi ci può insegnare le sue tradizioni e poi noi gli insegniamo le nostre.
Quando non conosco una cosa, se si tratta di una persona ci voglio fare amicizia, e se invece è una cosa cerco di scoprire come funziona. Nella mia classe c’è un bambino musulmano che mi incuriosisce perché le sue tradizioni sono diverse dalle nostre, e anche se gliele chiedo non me le spiega sempre, però a volte sì. Non mi sembra strano che non crede in Gesù Cristo perché loro hanno la loro religione, che se non sbaglio è Budda (e sì, core de mamma, sbagli – NdR). Succede che loro non sono strani: sono uguali a noi, soltanto un pochino più diversi.”
Premetto che mi avete colto alla sprovvista: sono in trasferta, ho accesso a internet limitatissimo e non posso rispondere come e quanto vorrei (per vostra fortuna).
@Barbara: fai benissimo a chiedere! Al ginepraio, secondo me, ci sono due approcci possibili: uno è quello della vita e uno è quello dell’accademia. Nella vita ci vuole creatività, flessibilità, fantasia e domande dirette ogni volta che può essere utile. Però secondo me è inutile stare a chiedersi “perché”. Non ci sono risposte giuste a una cosa così, secondo me. Altrimenti si arriva all’assurdo della mia amica chef che pretendeva, insegnando a una scuola di cucina, che tutti i suoi allievi musulmani si convincessero che, dato che non siamo nel deserto arabo e che sono stati introdotti i conservanti, la piantassero di fare storie e assaggiassero il ragù con la salsiccia. Sul perché, peraltro, i credenti stessi non hanno le idee chiare (del resto, quale cristiano saprebbe rispondere alla domanda: “Ma in pratica, cos’è lo Spirito Santo?”. Ognuno se crede si risponde come può e come sa e, in ultima analisi, può sempre giocarsi la carta del mistero). C’è poi l’approccio dell’accademia, la storia delle religioni: io su questo, da studiosa, mi sono fatta un’idea, che però è mia. Queste norme sono precetti identitari, sono nate probabilmente anche per differenziarsi nettamente da altri gruppi di credenti. Secondo me il sacrificio e il consumo del maiale, specialmente in contesti specifici, aveva una forte valenza per alcuni culti “pagani” molto in auge in Siria Palestina nell’epoca di formazione dell’ebraismo. Per i nuovi musulmani si sentiva forte l’esigenza di prendere le distanze da culti basati sul consumo di alcolici… E così via. Poi, una volta nata l’osservanza identitaria, il gruppo si riconosce (più o meno) in una ortoprassia, dandosi eventualmente spiegazioni e argomentazioni razionali (filosofiche, teologiche, antropologiche, salutiste). Il cristianesimo ha scientemente deciso di prendere le distanze da questo tipo di osservanze (ci sono diversi passi rilevanti, nei vangeli, ma specialmente negli Atti degli Apostoli). L’Islam invece, da questo punto di vista (e, più ampiamente, sul tema della purità rituale) è molto più in continuità con l’ebraismo.
Come scrivevo su FB, questo post capita a fagiolo per una serie di motivi.
Sarà che noi siamo in contatto costante con musulmani e indiani, quindi non ci pare strano. Anzi, forse ci paiono più “strani” quelli che si autoimpongono divieti alimentari sulla base di convinzioni pseudoscientifiche, senza neanche verificarle.
Dopotutto, tutti noi abbiamo dei divieti alimentari provenienti dalla cultura: quante volte mi son sentita dire “non mangio il cavallo / le lumache /le rane perché mi dispiace / mi fa impressione”!
Io stessa esito di fronte a pesci di forma serpentina e non credo che sarei poi tanto disinvolta se mi venissero offerte cavallette fritte, che pare siano il piatto forte di certi paesi. E, diciamocelo, se un cuoco mi rivelasse che la carne che ho appena mangiato è di gatto e non di coniglio, mi farei un bel po’ di remore.
P.S. Intendiamoci, quando dico “ginepraio” intendo un ginepraio bellissimo e interessantissimo, del quale vorrei sapere molto di più. Per esempio, perchè allora i musulmani e gli ebrei non mangiano il maiale? non l’ho mai davvero capito e non ho mai trovato qualcuno che me lo spiegasse…
@Chiara hai ragione da vendere, ma proprio perchè ho visto tante regole interpretate liberamente, io mi sento davvero di affermare che è un ginepraio. Io non ho remore, e nel caso mi venga un dubbio chiedo. Conosco pochissimi musulmani osservanti, quindi non mi sono ancora mai posta il problema. Conosco e ho avuto ospite qualche ebreo, ma lì le regole sonop talmente tante e stringenti che ho capito che diventano molto personali, e chiedo spudoratamente. Ammetto che mi dà un pò fastidio quando presi dalla discrezione non ti dicono tutto e poi a tavola ti chiedono cosa ci hai messo dentro la pasta. Se te l’ho chiesto prima era proprio per evitare sbagli, no?
Alla riunione preliminare dei genitori della nuova scuola di TopaGigia le maestre ci hanno proposto di offrire una festa il primo giorno. Abbiamo tutti accettato felicemente, e io subito ho chiesto “ci sono esigenze alimentari particolari nella classe?” memore anche del compagno ciliaco di mia nipote. Mi hanno guardata tutti come se fossi un’aliena, a me sembrava così normale…
ai tempi dell’università una coinquilina invitò il fidanzato libanese, ora marito, a cena per la presentazione “in famiglia”.
Noi avevamo cucinato evitando il maiale, lui discretamente non chiese nulla e un altro coinquilino gli disse ” abbiamo fatto così e cosà perchè non volevamo sbagliare ” quello scoppio a ridere e tirò fuori una bottiglia di barbera dicendo ” pure io non volevo sbagliare “.
fidanzato approvato.
Insomma, come le lasagne che mia nonna faceva per mio marito vegetariano, le due teglie separate.
Noi abbiamo l’ amichetto di mio figlio che le prime 5-6 volte che veniva da noi ribadiva che lui può mangiare solo cose Halal e una volta che li avrei portati all’ IKEA mi sono consultata con sua madre e per fortuna le patatine fritte vanno.
Un libro carinissimo in proposito che ho si intitola: l’ Ebraismo vien mangiando, di Sandra di Segni, ed è carinissimo, divertente, utile e pieno di ricette. Esordisce dicendo che quando devi spiegare l’ ebraismo ai non addetti, l’ assunto base è: Ebraismo e che è, una cosa che si mangia? no, ma si tratta di cosa NON si mangia. E ha questa frase bellissima di quando sotto feste comandate la madre sta a spignattare in cucina e manda il marito al negozio del tempio con la lista della spesa dicendo: e poi vedi tu cos’ hanno di buono e lui compra qualcosa di buono a sua scelta “Fateci caso, è sempre un salame”.
Ecco.