Il sogno di Alessio

A volte diciamo cose ai figli che condizionano pesantemente la loro capacità di seguire i propri sogni. A volte lo facciamo senza neppure rendercene conto, mentre altre volte lo facciamo in modo cosciente, perché in quanto genitori sentiamo di dover vigilare affinché i loro sogni non siano una perdita di tempo per qualcosa di irragiungibile. Ma quali sono i loro sogni? E abbiamo il diritto di sognare noi per loro?

Conoscevo un bambino, tanto tempo fa, camminava timido guardando in basso, stringeva per mano la mamma e la zia, era vestito sempre elegante, pantaloni blu con la piega, camicia bianca col colletto, bretelle colorate e giacca scozzese.
Era il più bravo della classe, alzava sempre la mano quando la maestra faceva le domande, era seduto in primo banco e finiva le verifiche sempre per primo.
Ogni pomeriggio, di sua iniziativa, per imparare meglio, prendeva un quaderno e ricopiava tutto quello che aveva fatto a scuola al mattino, di ogni materia, ogni titolo con colori diversi.
Aveva una scrittura ordinata e leggera, lasciava un margine a destra in ogni pagina, faceva delle cornicette con il righello alla fine di ogni paragrafo, stendeva le pagine con gesti studiati delle mani per evitare che si formassero le orecchie.
A scuola arrivava sempre puntuale, si sedeva al suo posto e metteva sul banco il suo astuccio con la cerniera, le penne blu, rossa e nera allineate con ordine, le matite colorate con la punta affilata e la colla con l’etichetta con scritto in bella grafia il suo nome.
All’intervallo tirava fuori da una bustina una fetta di torta di mele dal profumo invitante, diceva che ogni mattina gliela portava sua zia, che si alzava prima delle sei per mettere in ordine la casa e cucinare per la giornata.
Aveva i capelli biondi portati con la riga di lato, gli occhi di un azzurro intenso, lo sguardo deciso ma con un velo di tristezza, la bocca sottile e un sorriso appena accennato.
Si chiamava Alessio, e un giorno mi invitò a casa sua.
Ero una bambina curiosa e attenta, il mio posto era proprio dietro a quello di Alessio, guardavo con ammirazione i suoi libri rilegati con cura e i suoi quaderni dalle copertine ordinate e perfette.
Mia madre mi accompagnò davanti al suo portone e citofono’ timidamente, rispose la zia, che lo andava a prendere alle 12,30 e si occupava a il lui il pomeriggio mentre la mamma era al lavoro. Ai miei tempi alle elementari in pochi facevano il tempo pieno, e io uscivo prima di pranzo, con mia madre che mi attendeva sorridente fuori da scuola per portarmi a casa.
Ho ricordi a tratti di quel pomeriggio, eppure i particolari che mi tornano alla mente sono precisi e nitidi, anche se sono passati quasi quarant’anni. La sua stanza azzurra con le nuvole dipinte sul muro, le macchinine verdi sul ripiano sopra la scrivania, i suoi libri in ordine di colore che mi avevano fortemente colpito.
Non ricordo i giochi che facemmo, la merenda che sua zia mi preparo’, il profumo di quella cucina con i fiori gialli alle pareti, il nome della via in cui abitava.
Ricordo invece molto bene quello che mi disse più volte, guardandomi negli occhi e aspettando un mio cenno dopo le sue parole.
“Io da grande vorrei fare il maestro”.
“Anch’io”, avevo risposto con slancio “la maestra, voglio dire”.
Il suo sguardo si era rabbuiato d’un colpo di fronte al mio sorriso aperto, e subito aveva aggiunto.
“Mia madre però dice che devo fare l’avvocato, per farmi una posizione”.
Eravamo piccoli, eppure mi sembrava che avesse le idee molto precise, molto più di me, che ero mossa da facili entusiasmi, se pur il sogno di maestra mi accompagna sin da allora.
L’avevo incontrato molti anni dopo ad una manifestazione, frequentava un liceo di una zona diversa dalla mia, che nel frattempo mi ero trasferita da un’altra parte della città. L’avevo salutato subito, era stupito che immediatamente lo avessi riconosciuto.
“Alessio! Come stai?”
Mi aveva raccontato che l’anno successivo si sarebbe iscritto a giurisprudenza, e aveva notato una punta di delusione nei miei occhi che lo fissavano con aria interrogativa.
“Faccio lezione ai bambini delle scuole medie, li aiuto il pomeriggio con i compiti. Sapessi che soddisfazione mi danno, corrono da me con le verifiche prima ancora di farle vedere ai genitori”.
“Hai cambiato idea quindi?”. Mi riferivo al suo sogno di fare l’insegnante, che trovavo così calzante con questo suo entusiasmo per le poche ore di ripetizione che dava in settimana per arrotondare.
“Veramente no, il mio sogno è sempre quello. Ma e’ un po’ difficile a volte. Forse, come dice mia madre, non è la mia strada”.
E invece lo era, la sua strada, in quel momento avrei voluto gridaglielo addosso, e invece abbassai lo sguardo e lui andò via, voltandomi le spalle. Avrei voluto inseguirlo per le strette vie del centro, fermare quei giorni e gli anni a venire, mostrargli quella porta che aveva così vicina, ancora socchiusa ma facile da aprire. Lo guardai incamminarsi a passo lento, con un libro sotto al braccio e quella stessa andatura che aveva da bambino.
Sarebbe uno splendido maestro, pensai allora con tristezza e rabbia per le aspettative sbagliate, le passioni sprecate, i desideri degli adulti che si proiettano, a volte con egoismo, sui propri figli.
Alessio non l’ho più rivisto, e volutamente non ho più voluto sapere quale sia stata alla fine la sua scelta, il suo destino, la sua vita da allora. La sua storia però mi ha aiutato e continua ad aiutarmi, soprattutto adesso, a fare un passo indietro.
“Mamma, decidete voi per me”, mi ha detto qualche tempo fa il mio ragazzo più grande, alle prese con la difficile scelta della scuola superiore.
“Pensa a quello che ti piace fare, a come ti vedi da grande, a cosa ti interessa studiare. Il resto viene dopo…”, ho risposto decisa.
E mentre lo guardo fare lo zaino con cura, mettere via i libri e i quaderni, chiudere il violino nella sua custodia nera, penso che a volte, anche solo osservandoli, si riesce a cogliere di loro molto di più che con mille parole.

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