Estate in città

By Barbara Maliszewska (utilizzata in Creative Common)
By Barbara Maliszewska (utilizzata in Creative Common)
Qualcuno mi odierà se dico che sono cresciuta in un luogo di mare, a Tortoreto Beach, a 20 metri dalla spiaggia. In effetti noi la spiaggia cominciavamo a godercela ad aprile, quando venivano per il weekend gli amici e andavamo alla mattina alle 4 ad aiutare con la pesca a strascico, e noi bambini finivamo sempre per farci il primo bagno della stagione in mutande, all’ alba, per poi passare quell’ oretta a rabbrividire in macchina con la canottiera di lana tutta appiccicata al sale.

In estate eravamo invasi dai turisti e la maggior parte di noi lavorava: a parte chi faceva il bagnino, noi locals ci riconoscevamo dalla massa per il colorito bianco verme che ci portavamo fino a dopo Ferragosto, quando finalmente la spiaggia tornava di nuovo un pochino nostra. Ci riconoscevamo anche perché andavamo in giro vestiti normalmente e non in mutande anche oltre quella terra di nessuno che era la ciclabile lungomare. Ci riconoscevamo perché al mare andavamo vestiti da mare, ovvero con quei calzoncini troppo corti per andarci in giro normalmente e quelle maglie troppo lunghe per indossarle sopra alle gonne.

Oppure ci andavamo la sera, smontati dal turno in reception, con un telo da bagno avvoltolato intorno, scalzi con le piante dei piedi sull’ asfalto ancora caldo del giorno e un cane di almeno 40 chili, che, inevitabilmente, dopo il primo tuffo si perdeva verso qualche pizzeria e tu eri costretta a inseguirlo scalza, discinta e sacramentando perché i baciapiedi, quelle erbe spontanee fornite di spine tridimensionali come quelle della corona del Cristo in croce e di deliziosi fiorellini bianchi, ti si infilavano nelle carni quando abbandonavi il vialetto dello stabilimento. Ritrovavi il reprobo con aria innocente a scondinzolare, nutrito da bambini in bermuda blu e polo immacolate per la passeggiata serale che facevano: “Poverino ha tanta fame” come se il cane di un albergo visitato da famiglie con bambini schizzinosi potesse mai avere fame.

Te lo riprendevi afferrandolo per il collare e giuravi che prima di settembre, col cavolo che te lo portavi in spiaggia, ‘sto cappero di cane. E intanto per la deviazione non potevi più rientrare discretamente per la scorciatoia ma ti toccava attraversare piste da ballo sempre scalza e con l’ asciugamano e i capelli insabbiati. Asciugamano vintage di trent’ anni sbiadito e sfilacciato, noi che non ci andiamo in vacanza al mare non abbiamo manco bisogno di procurarci teli da spiaggia in ciniglia.

Insomma, noi prima dei figli passavamo le estati ad Amsterdam a goderci il periodo migliore, che anche se lavori sembra di essere già in vacanza, la mattina non c’ è traffico, all’uscita dal lavoro hai ancora 5-6 ore buone di luce e i cugini fighetti ci prelevavano per andarci a prendere l’aperitivo al mare a Zandvoort. Nulla come la città semivuota in estate per sentirti turista in casa tua in un modo che vivendo al mare non ho mai potuto godermi.

E nelle giornate libere, invece di inscatolarci nelle code che portano alle spiagge, noi ce ne stavamo a goderci la città. Lo so che è una perversione di pochi, ma a me l’ estate in città dà un senso fortissimo di vacanza.

Questo perché da bambini io, mio fratello e i miei cugini venivamo spediti a Cracovia dai nonni. Un paio di settimane le passavamo in colonia in montagna, in giro per boschi a raccogliere fragole e mirtilli che ci conciavano la faccia di rosso e di blu, a fare di quelle robe masochiste tipo scout, come le passeggiate sotto la pioggia battente, le docce comuni che non diventavano mai calde veramente, o i bagni, anche questi la mattina presto col professore di arti marziali e un gruppetto di eletti, in quei torrenti dove già solo camminare quei 10 metri con le caviglie in acqua per aggirare un costone a picco faceva un male, ma un male.

Poi, però, arrivavamo alla spiaggetta dove avevamo costruito la diga e dietro c’ era una pozza profonda. Ci tuffavamo tutti a testa in giù e quando eri sotto era troppo tardi per ricordarsi del freddo e restava solo l’ euforia del gesto eroico.

Ecco, dopo due settimane del genere, un mese in città.

A giocare dalla mattina alla sera con i bambini dei palazzoni vicini nella piazzetta pedonale con le sabbiere e il prato, disegnare campanoni su quell’asfalto nero nero, liscio e omogeneo che sembrava di ceramica opaca.

A fare capriole e acrobazie sui telai di tubi di ferro che servivano a battere i tappeti ma che diventavano la nostra versione privata delle parallele, fino a che dai balconi non ci chiamavano per cenare e guardare i cartoni della buonanotte, il programma fisso in TV con tutti quei meravigliosi cartoni Est-europei, altro che Manga: il Capretto Babbeo, Bolek e Lolek, la Piccola talpa.

A bere Pepsi Cola, che per qualche stranezza da cortina di ferro in Polonia anche in quegli anni si produceva e si beveva quando andavamo a fare un giro in barcone sulla Vistola. A fare passeggiate in città, che il Rynek Gòwny , anche se è la piazza più grande d’ Europa, non è che fosse grande come una città, ma andare in città significava quello.

A mangiare nelle eleganti kawiarnie austro-ungariche del centro delle coppe di gelato buonissime e decorative, con la panna montata a mano e più morbida di quella delle macchine con il rubinetto. Perché quelle macchine lì tipo Carpegiani si usavano invece per fare i Lody Wloskie, i gelati italiani, un ricciolone di gelato leggerino al latte, ma buono buono, con tutte le noccioline e le codette sopra, che si compravano facendo la fila a una finestrella.

Estati in cui ci davamo appuntamento con quegli altri 20 o 30 bambini dei palazzoni circostanti per andare in piscina: tutti con un asciugamano, un panino, pochi spiccioli per il biglietto, l’immancabile Pepsi e le ciambelle di pane con i granelli di sale e i semi di sesamo o papavero sopra, un’armata Brancaleone di ragazzini che scarpinavano in quella terra di nessuno tra il nuovo quartierone moderno di palazzoni al capolinea del tram, e quella che era ancora campagna in via di inurbazione, tra vecchie case di pietra, pratoni incolti e mucchi di pezzi di tubature da collocare per i nuovi quartieri, dei tunnel di 70 cm. di diametro in cui giocare agli speleologi. Che a quella piscina ci arrivavamo per scorciatoie.

Estati in cui la cosa più fuoriporta che si potesse fare era andare a trovare i prozii nella loro casetta dell’orto urbano, in cui crescevano lamponi buonissimi con cui ciocia Tosia faceva lo sciroppo da allungare con il seltz, e quella sua bottiglia con i cilindretti della ricarica resta ancora un mio sogno proibito. Oppure prendere il tram e poi l’ autobus per andare allo zoo, entrare nel rettilario e passare le settimane successive a ricordarsi i serpenti e i coccodrilli che mi impedivano di prendere sonno. Quello zoo, con intorno i boschi, è stato il luogo del primo appuntamento dei miei genitori quando si sono conosciuti, perché era l’ unico posto dove mia madre era sicura di non incontrare qualche zia mentre stava a spasso con uno dalla faccia talmente italiana, che era come se ci avesse scritto in fronte: pregiata valuta straniera e mia madre si vergognava troppo all’ idea che si pensasse che lei era una di quelle ragazze che uscivano con gli stranieri.

Con i miei cugini mezzi francesi così incongruamente mulatti ed esotici, che anche noi vivevamo di riflesso quell’ esotismo, e che in famiglia chiamavamo con nomi che più polacchi non si può, ci ho messo anni a capire che mio cugino Kubek nella vita si chiama Raoul.

E io, unica bambina di casa che veniva sottoposta alle torture di nonne e zie che non uscivano mai di casa senza cappello e rossetto, andavo adeguata a suon di boccoli e calzini bianchi di filo con i buchini a giorno mentre io sognavo solo di uscire in cortile a mettermi a testa in giù sul battitappeto.

Erano quegli anni in cui tutti quanti si preoccupavano: i polacchi che volevano sapere se era pericoloso vivere nell’ Italia degli anni di piombo, con le Czerwone Brigade che gambizzavano e rapivano la gente, e io boh, che ne so, vivo in un paesino dell’ Abruzzo, mai visto un brigatista rosso. E gli italiani che mi chiedevano spaventati ma che davvero?, le vacanze dietro la cortina di ferro e i comunisti che mangiano i bambini quando in realtà noi mangiavamo solo i gelati e le ciambelle ai semi di papavero, si riportano dietro tutto il sapore delle mie vere e uniche vacanze estive da bambina. Quelle dai nonni in Polonia.

Per questo mi è rimasta la perversione delle vacanze in città, e siccome in Olanda i bambini sono liberi in estate solo per 6 settimane, ho il meglio dei due mondi.

(foto credits @ Barbara Maliszewska )

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