Mi guardi serio, ti rabbui e vai dritto verso la tua stanza. All’ultimo ti giri senza guardarmi, prosegui con il libro che stai leggendo e ti siedi alla scrivania.
Sei serio, non accenni un sorriso. Sei intransigente, con gli altri e con te stesso.
Cosa c’è, di cos’hai paura?
Perché non sei più trasparente, e affondi nei tuoi interminabili silenzi?
“Mi trattano come un bambino“, dici a un’amica mia mentre ti guardo, ti giri verso di me e hai lo sguardo nero come la pece.
“Ho undici anni“.
Hai ragione, vorrei dirti, faccio fatica a non vederti più tra le mie braccia, bambino paffutello dalle guance rotonde. Adesso sei snello e veloce, sfuggi alla mia vista e al mio cuore.
Che succede a quegli occhi scuri, che mi trafiggono di nostalgia?
Occhi come sciabole affilate, frutto di incomprensioni o della semplice paura di crescere.
Cosa sente il tuo cuore tormentato? Ha dei suoni che faccio fatica a comprendere, strumenti musicali dalle note sconosciute e lontane.
Le stesse note che al tuo violino mi sembrano sublimi.
“Mamma dai, tu non capisci“.
Capisco le emozioni però, la gioia e la sofferenza, l’allegria e la tristezza quando non riesco a comprenderti, e mi sento sola a salire su una montagna troppo alta.
Salgo, ma la strada è impervia, allungo la mano e a volte non trovo nessuno che mi tiri su.
Continuo a salire e ti guardo.
Forse ti parlo troppo poco, non riesco a fare breccia e mi ritraggo, per la paura di non essere ascoltata.
Eppure quando ti parlano gli altri fai l’indifferente ma non perdi una parola. Ascolti ciò che gli adulti ti dicono, con la coda dell’occhio ti spio e capisco che segui perfettamente i discorsi che la gente ti rivolge.
So che ci pensi, non subito ma ci pensi.
Perché allora sembri non dare peso a ciò che ti dico io?
Dimmi perché.
Rivedo la mia stessa insofferenza, capisco mentre mi cammini davanti ciò che può provare la mia, di mamma, di fronte a una figlia che passa e va, senza trattenere nulla.
In fondo mi viene fatta la stessa accusa, ma tu questo non lo sai.
“Mi ascolti una volta per favore?”
Dico ad alta voce, in un tono imperioso che non mi piace per niente. Eppure è il mio modo sbagliato di farmi sentire.
Sei già andato via, la tua borsa da calcio era pronta da ieri, calzini piegati, pantaloncini e maglietta opaca, ingrigita dai troppi lavaggi.
“Io vado“, annunci, prendendo le tue cose sempre allo stesso modo.
“Io vado“, dici a tutti poco prima delle otto, quando ti avvii verso la scuola con passo svelto e sicuro, lo zaino è troppo pesante ma non te ne curi, chiudi la porta dietro di te e procedi in mezzo alla fiumana di ragazzi.
Ti fermi una volta qui vicino a me?
Rannicchiati, appoggia la tua testa sulle mie gambe, chiudi gli occhi.
Sei stanco piccolo mio?
Forse troppo, consumi energie che non sai di avere e ti ritrovi affaticato a chiudere la giornata.
Vorrei stendermi vicino a te, a volte lo faccio davvero. E’ la cosa che ti piace di più, tiri una riga sulla lavagna bianca e cancelli le battaglie, fai tabula rasa.
Accogli le mie carezze e aspetti che i tuoi occhi si chiudano, sento il respiro pesante e vedo che ti abbandoni al sonno e alla tregua.
La guerra è finita, puoi iniziare a sognare.
@Anna, ricambio l’abbraccio. Grazie!
@Gina, ti ringrazio, viene tutto dal cuore. A presto.
Mio figlio ha dieci anni. Capisco ogni parola e soprattutto quel senso di impotenza misto a nostalgia. Ti abbraccio tra le lacrime..
Hai una sensibilità speciale e il dono di saperla trasmettere a parole.