Avete presente l’interlocutore che interviene nel post in cui dite meraviglie del film che avete appena visto, per contraddirvi? Quello che cerca la falla nel ragionamento con cui sostenete le vostre opinioni, quello che si concentra più sugli artifici dialettici che sull’oggetto della discussione, che si butta nella polemica fine a se stessa e che, messo in difficoltà, piuttosto che arrendersi va a cercare i refusi nei vostri post?
Ecco, quella sono io.
Tutto questo parlare di violenza nella comunicazione in rete finisce per dar fuoco alla mia coda di paglia e mi costringe a un controllo costante dei miei comportamenti nei social. Il problema è che il confronto mi piace, lo scontro di più. Intendiamoci, non sono un leone da tastiera: la mia vis polemica si esprime dignitosamente anche quando mi trovo lontana da uno schermo, però è lì che do il meglio di me.
Frequento il web da più di vent’anni – da quando, cioè, ci si esponeva solo attraverso pseudonimi, i forum si chiamavano ancora newsgroup e Zuckerberg non era ancora incappato nell’idea dei gemelli Winklevoss traducendola in un progetto visionario (sì, parlo di Facebook). Eppure, nonostante la mia longevità, ho imparato poco e mi applico ancora meno. In questi vent’anni sono stata bannata un’infinità di volte (ci sono forum di mamme da cui sono interdetta dallo scrivere), e un numero indefinito di persone mi ha bloccato nei social. D’altronde, io ho fatto altrettanto.
Insomma sono una litigiosa, ma sono in buona compagnia: sebbene si parli tanto di netiquette e di moderazione, la mia impressione è che le discussioni in rete stiano inasprendo nella forma e nei contenuti, ovunque e a ogni livello. Nel momento in cui scrivo, ad esempio, un’amica ha appena messo un like al commento di un utente che mi maltratta. La cosa mi ferisce, mi fa arrabbiare, mi fa venir voglia di far partire un bel flame. Avrei la stessa reazione se stessimo parlando tutti attorno a un tavolo e l’amica si limitasse ad annuire alle ragioni del mio interlocutore? Probabilmente no, perché la comunicazione non verbale permette di correggere parole e comportamenti altrimenti sgraditi e calibrare le nostre reazioni. Nella comunicazione in rete, invece, le iterazioni passano attraverso il filtro delle personalissime percezioni e paturnie, con una inevitabile distorsione.
Quello che mi sorprende è che – al netto dei casi di cronaca e delle pagine pecorecce improntate al cosiddetto black humor – ai nativi digitali tutto questo è chiarissimo. I social hanno per i ragazzi lo stesso appeal che noi adulti diamo a una lavatrice – ci aiuta a vivere meglio, ma non la insultiamo se siamo nervosi – mentre i comportamenti degli adulti sono spesso imbarazzanti, quando non penalmente perseguibili (per dire: leggo proprio ora in forum di mamme alcune utenti che stanno dando della pazza a una di loro, colpevole di non aver accettato la loro amicizia su facebook).
Insomma: i ragazzi se la caveranno – dopotutto siamo stati attentissimi alla loro educazione digitale – mentre per gli adulti c’è ancora molto da fare, a cominciare da me. Ce la farò a non cadere nelle trappole della maleducazione digitale? Mmh, no, temo che per molti sia troppo tardi per imparare e che per riuscire davvero a trattenere le dita sulla tastiera si debba essere minacciati là dove fa male: nel portafoglio. La Germania lo ha capito, approvando la cosiddetta “Legge Facebook” contro l’hate speech. E chissà che non impari.