Un tempo ero giovane e studiavo latino. È stato allora che ho forgiato un breve gioco di parole che mi ripetevo ogni volta che mi trovavo di fronte a una svolta, a un cambiamento: “adolesco, quindi cresco”. È banale, lo so, ma serviva a ricordarmi che al di là di tutte le difficoltà, fantasmi e paure che si concentrano attorno al periodo dell’adolescenza, di base il significato della parola è solo quello di “crescere, svilupparsi, rinvigorirsi”.
Dopo l’adolescenza propriamente detta, ci sono stati diversi momenti in cui ho avuto la necessità di crescere, di svilupparmi su un versante o un altro, di sperimentarmi, e di fronte alle lamentele di chi mi rinfacciava “non sei più quella di una volta” oppure “ma si è sempre fatto così, che necessità hai di cambiare?” dentro di me ho sempre risposto “adolesco, quindi cresco”. C’è un senso, bello, di sviluppo, anche dietro al momento più difficile, incomunicabile e confuso dell’adolescenza più rognosa.
Ora che non sono più giovane e non studio più latino, ma tante altre cose utili a una giovane donna di 40 anni, ho capito che, in senso buono, la vita ci propone tante fasi di adolescenza, che si possono cogliere oppure no, vivere in maniera dissennata o sfruttate come occasione di cambiamento profondo, quel cambiamento che, a fronte di quelle che possono apparire rivoluzioni dall’esterno, in realtà non fa altro che avvicinarci al nostro io più profondo.
“In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata”. C. G. Jung
Per avvicinarci alla nostra identità più profonda, però, occorre attraversare delle fasi di “chiusura”, ed è un po’ di quelle che vorrei provare a parlare. È facile infatti, parlando di cambiamento, di mutazione, portare l’immagine del bruco che lascia se stesso per diventare farfalla: e voilà, eccoci colorare svolazzanti farfalle multicolori, già proiettati nel futuro. Eccoci dire all’adolescente ombroso che tutto passerà: passeranno i brufoli, le crisi di pianto, gli ormoni impazziti, la cellulite (ah no quella non passa), e arriveranno i fidanzati, una passione per cui perdersi a studiare e tutto filerà giusto e dritto come nel casolare della Mulino Bianco. Ma l’adolescente, se va bene borbotta tra sé “adolesco, quindi cresco”, se va male non riuscirà neanche a sentirvi.
Ora, che vivo una fase di cambiamento più profonda ma anche più consapevole, ho provato a immaginarmi il perché di questa difficoltà a sentire e ad avere fiducia che tutto, poi, passa davvero. Nell’immagine dal bruco alla farfalla tendiamo a sgusciare troppo velocemente alla situazione futura, a evitare con due veloci passaggi quello che è nella realtà il lungo periodo di metamorfosi che il bruco passa nel bozzolo o nella crisalide (chiedo scusa ai biologi se mi approprio in maniera inesatta di una faccenda così delicata).
Nella realtà, il bruco, dopo un bel periodo di vita da bruco, si ritrova al buio, semiaddormentato, affamato, man mano che quanto accumulato viene speso per la metamorfosi e io già le immagino, le vocine nella sua testa: “ma non stavo meglio a vivere da bruco? Almeno sapevo quando mangiavo, che mangiavo, che cosa accadeva. E poi, tutti dicono che diventerò farfalla… e se non fosse vero? E se si fossero sbagliati? E se fossi una specie diversa, solo bruco? Ecco. Rimarrò per sempre dentro questo bozzolo, al buio al freddo e senza nulla da mangiare. Oh, com’era meglio rimanere bruco”.
Ecco, come si sta, nel mezzo della metamorfosi, per mia esperienza.
Come agire da fuori
Come direbbe Marianella Sclavi, proviamo a immedesimarci in tutto quel mondo da bruco e da bozzolo, di fronte a cui ci troviamo. Investighiamo se si può bussare con cautela, se si può raccontare con fiducia del futuro ma senza dimenticare le paure di chi è dentro. Proviamo a vedere che cosa mette paura davvero, profondamente, a chi è dentro al bozzolo: non è detto siano le nostre stesse paure, lo sappiamo bene se riflettiamo su tutte le occasioni di confronto che abbiamo avuto con i nostri figli, anche da piccoli, in cui a fronte di un episodio, immedesimandoci, ci sentivamo pronti a finire la sua frase con “e quindi … hai avuto paura che ti sgridasse la maestra” (per esempio) e rimaniamo sorpresi dal suo finale che magari è “e quindi, sai mamma, ho temuto di finire la colla, perché se così fosse stato, avrei dovuto portare a casa il compito da finire, e sai che noia?”.
Non dare per scontato, bussare con dolcezza, provare ad ascoltare. A volte, semplicemente esserci, con fiducia.
Le persone che mi hanno fatto più bene, in questo periodo di cambiamento, sono quelle che hanno ascoltato i miei messaggi di sconforto, panico, dubbio e sorriso, salvo poi dirmi, una volta superato l’ostacolo “sapevo che ce l’avresti fatta, ma sapevo anche che non mi avresti creduto, per cui sono rimasta qui, aspettandoti”.
Come agire da dentro
Anche chi è dentro il bozzolo del cambiamento, a seconda del suo livello di consapevolezza, può fare qualcosa, per aiutare se stesso e gli altri – dove sente di voler aiutare gli altri.
Comunicare, quando può, sapendo che la telepatia non è di questo mondo e che qualche sporadica comunicazione sui propri desideri, paure e fatiche aiuta chi ci circonda a diventare alleato e meno avversario.
E quando non può, fare la vita da bozzolo, lasciando alla fiducia e all’immaginazione di portarlo a uno stadio ulteriore della sua identità dove di certo si saranno conservati coloro che con quella identità profonda hanno costruito legami sinceri e onesti.