Accompagnare i figli verso la vetta

Il trucco è guardare in giù, verso la strada fatta. Se si guarda in basso ecco comparire in lontananza le paure legate alla prima infanzia, le ansie da malattia esentematica, le paturnie da scolarizzazione e tutte le angosce che un figlio nuovo di zecca porta con sé – non è necessario elencarle tutte, le conosciamo. Va be’, magari solo una: il primo cuore spezzato. E un’altra: la scelta delle scuola superiore. E un’ultima: l’odore di canna sul loro guardaroba nel cesto della roba sporca.

Ma sto divagando, dicevo: se si guarda in basso ci si motiva. Siamo riusciti a far arrivare i figli sin lì spingendoli per il sedere, ogni tanto qualcuno sdrucciolava trascinando con sé gli altri e toccava ricominciare daccapo come De Niro in Mission; ma ora eccoci qui, fermi a osservare il panorama.

Non siamo in vetta, macché. Quando si tira su lo sguardo verso la cima, quello sì fa paura. Riusciranno mai i ragazzi ad arrivare fino alla vetta dove si intravede un lavoro – non è nemmeno necessario sia appagante, basta che sia retribuito – e una certa tranquillità negli affetti? Magari una famiglia tutta loro?

Io non riesco a guardare in su. Quando lo faccio, vengo sopraffatta da un senso di impotenza e frustrazione. Non so se riuscirò a catapultare i miei figli fino alla cima, tutto mi sembra difficile, al punto da provare nostalgia di quando l’ostacolo da superare era un dente che stentava a uscire o un bambino che rifiutava la loro amicizia.

Con il senno di poi ogni tappa sembra facile, anche se quando la percorrevamo non lo era affatto; ma è ora che siamo vicini così all’arrivo che si ha l’impressione di essere entrati in un sentiero ingannevole e complicato. Qui la pista si fa confusa, porta a vicoli ciechi e tocca tornare indietro, osservare il terreno, riflettere. Come la scorsa estate, quando il conseguimento della patente e del diploma mi aveva fatto sperare di avere spinto la ragazza sin sulla vetta e invece è scesa una fitta nebbia che ha nascosto i tracciati costringendo a uno stop. All’estero lo chiamano “year off”, per i nonni è una perdita di tempo, per me una scommessa, per mia figlia il tentativo di chiarire a se stessa cosa vorrà fare da grande. Uno stop di un anno e la vetta che sembra più lontana.

Devo distogliere lo sguardo per andare avanti e costringo anche mia figlia a farlo: guarda quanto percorso abbiamo fatto insieme, invece, pensa che siamo arrivate sin qui. Chi l’avrebbe detto.

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