Questo racconto è in parte storia vera e in parte esperienza diretta. Ho pensato che non ha importanza spiegare dove finisce l’una ed inizia l’altra.
Quando ho conosciuto Tim Howard non avrei mai pensato che potesse diventare un campione. Aveva questa malattia, la Sindrome di Tourette, di cui avevo solo sentito parlare, che lo costringeva a continui tic motori e verbali. Continui non so se rende l’idea: significa che in ogni singolo minuto che dio manda in terra potrebbero esserci almeno due episodi, a volte quattro.
A volte sei.
Famiglia sfinita, specialisti in crisi, lui a grande rischio emarginazione.
Non sapeva né correre né tirare un pallone ma avevo pensato di portarlo al campo di calcio perché mi pareva una buona idea: il fisico non gli mancava, bello come un dio greco ancora pre-adolescente e tanta voglia di stare con i pari età. Che poi era il vero obiettivo: un po’ di normalità, niente specialisti, niente soluzioni al Problema. Amici, due palloni e qualche regola che a quell’età non fa mai male.
C’era questa squadretta, nata da poco, che puntava tutto sugli aspetti educativi: niente parolacce, puntare sul gruppo, integrazione a tutto tondo. Pareva fatta apposta. Certo, il fatto che alcuni tic fossero delle imprecazioni poteva essere un problema ma tutto sommato, spiegando bene il problema ci si poteva provare.
La prima volta che l’ho portato mi sono stupito di quanto la mia presenza fosse inutile. Serviva quasi più a tranquillizzare lo staff che a sostenere Tim.
I suoi compagni, che lo conoscevano dalla scuola, me lo hanno letteralmente strappato di mano e se lo sono portati in spogliatoio a spiegargli come funziona.
Lui si è messo subito i guantoni ed ha detto che avrebbe preferito giocare in porta perché così poteva gestire i tic nei momenti in cui il gioco era lontano. Il coach non ha battuto ciglio e lo ha affiancato al portiere titolare come se avesse sempre giocato con loro. E si è capito subito che aveva numeri.
Dalla seconda volta iniziai a stare in disparte.
La terza non sono nemmeno entrato in campo.
La quarta c’è andato da solo.
Non è stato tutto facile, ovvio. Se prendi un goal e sei Buffon al massimo ti dicono che sei diventato vecchio. Se sei Tim Howard possono chiamarti handicappato, un po’ come fischiano Balotelli chiamandolo “negro”.
Però qualche anno dopo so che è diventato un professionista, è stato ingaggiato in Premier League ed è stato per anni titolare della nazionale USA.
Ha fatto anche un goal, una volta, su un rinvio suo ed una paperaccia del portiere avversario. E lui non ha esultato. Cioè fai una cosa che è riuscita probabilmente a due persone in tutta la storia e non esulti?
“So cosa vuol dire subire umiliazioni, non mi farò mai scherno di un collega”. Non si sente in credito con la sorte, il buon Tim, non la sbatte in faccia a nessuno la sua vittoria, lui.
Ha smesso, mi dicono, gli anni sono passati anche per lui.
Adesso organizza campi per bambini e ragazzini che hanno gli stessi disturbi suoi ed io ogni volta che vedo un video che lo riguarda mi commuovo perché penso: “Madò, che figo che sei diventato, Timmy”.
A volte penso che questo è lo sport che ci serve, lo sport con cui vorrei che crescessero i miei figli, quello che potrebbe davvero a servire a questo mondo: dove può esserci una rivincita ma non è necessario che qualcuno perda.