Mi interrogo da un po’ di tempo sul ruolo della violenza nella vita quotidiana e su quale sia l’atteggiamento più sensato da coltivare rispetto ad essa.
Abbiamo parlato e dato per scontato – forse perché racchiusi in una bolla di relazioni a noi affini – che nel crescere i nostri figli non avremmo usato la violenza, alzato le mani, il rimprovero, il ricatto o la minaccia, ma che avremmo dato ascolto e fatto evolvere in loro la parte più umana, generosa, empatica.
Violenza e istinto
Ammesso e non concesso che “il signore delle mosche” descriva il bambino – l’uomo – allo stato naturale, ci siamo fatti forza per lavorare sugli istinti, ascoltandoli, educandoli, forzandoli forse in una cornice illuministica. E talvolta mi chiedo se non sia troppo illuministica, guidata da una sorta di ottimistico e idealistico raziocinio, un’illusione, quasi. Nella realtà mi sembra che la violenza, l’aggressività e la prepotenza caratterizzino buona parte delle relazioni umane, con buona pace della tessitura di reti di fiducia, reti deboli ma efficaci, con cui valorizzare il proprio Sé all’interno della comunità, per costruire e ricavare reciprocamente vantaggio e valore per tutti.
Mi chiedo spesso se lo noto perché sono incapace a presentarmi assertivamente – difendendo quindi la mia identità e preservandola nelle interazioni, pur rispettando lo spazio altrui – o se davvero qualcosa sta cambiando, se mancano gli spazi in cui approcciarsi agli altri con fiducia e gentilezza. E come spesso accade, se è un ambito in cui mi sento incapace, mi si propone subito la domanda.
Che cosa devo insegnare, allora, ai miei figli?
A sbraitare, insultare, suonare il clacson e farsi valore nel traffico?
A insultare senza ritegno sui social e per strada chi abbia un’opinione diversa dalla mia?
A far valere le mie esigenze per puro egoismo e comodo personale anche se vanno contro quello che è sempre stato fatto da un gruppo – un compromesso, magari, raggiunto negli anni per costruire un minimo equilibrio tra istanze diverse?
A usare quello che è di tutti – Ospedali, scuole, strade, ambiente – e magari anche danneggiarlo pagando il meno possibile, eventualmente trovando ogni escamotage pur di esentarmi dagli obblighi da buon cittadino?
A commentare l’altro, il suo comportamento o il suo apparire, magari anche la sua bellezza, con rapacitá, per il puro gusto di dimostrare che io posso?
Non lo so.
Discernimento
Ed è pur vero che in quello che sto scrivendo emerge anche la violenza del mio stesso giudizio – costruito sulla base dei miei canoni, della mia storia, dei miei valori – e che forse anch’io, per fare spazio a una pluralità di esistenze libere e uniche, devo lavorare sui miei modi, sui miei vizi di discernimento.
Perché la violenza forse no, non va approvata, ma anche nel risentimento di chi si è fatto mettere in un angolo per un’incapacità a reagire o a dire assertivamente la sua covano ira, rancore e violenza pronti a emergere in maniera inconscia o con moti aggressivi o di disprezzo scissi dalla propria volontà.
Rimane allora la strada di disinnescare dentro di sé i meccanismi che ci rendono ora vittime ora carnefici per essere sempre più pronti a compiere scelte liberanti della vera umanità nostra o degli altri.
Purtroppo non ho trovato modo di operare questo mestiere senza riprendere uno a uno i miei punti deboli, quelli che creano delle storture e che si sono creati nei momenti in cui ero più debole e incapace di gestire emozioni difficili come la vergogna, il disprezzo, la tristezza e la solitudine. Come scrive Brené Brown nei suoi studi, presentati amabilmente anche nei suoi ted talk, che ho già spesso citato: non c’è modo di raggiungere la propria autenticità se non scoprendo le proprie vulnerabilità.
Mi è venuta in soccorso, ultimamente, Alice Miller, che nel suo “Il dramma del bambino dotato e la Ricerca del vero sé” – dove traccia anche un’analisi sociale di come la rabbia individuale, covata inconsciamente, sia alla radice dei nazionalismi e della politica aggressiva – scrive:
“La nostra storia possiamo scoprirla poco a poco vivendo i nostri sentimenti e bisogni a patto di poterli accettare, rispettare e considerare legittimi”
E ancora:
“Una persona che riesca a confrontarsi onestamente senza ingannare se stessa con i sentimenti che prova non ha bisogno di ricamarci sopra delle ideologie e non rappresenta, perció, un pericolo per gli altri”.
Aiutatemi a capire le strade che state percorrendo e le vostre scelte: sono certa che diventare genitori migliori sia la linfa vitale per una società migliore per tutti.
Grazie
Un bel articolo pieno di spunti di riflessione. In questi giorni sto leggendo un libro di Marshall Rosenberg “Le parole sono finestre oppure muri” dove si parla della comunicazione non violenta. Leggendolo mi sono sentito incapace a comunicare in modo non violento, e mi sto accorgendo che la comunicazione di oggi è ben lontana da quello che nel libro viene definita comunicazione non violenta. Si pensa sempre alla violenza esplicita, plateale e non si pensa alla violenza come qualsiasi gesto o parola che puó far provare un sentimento di dolore. Forse allontanandoci dal confronto, dal giudizio ed avvicinandoci ai bisogni, ai sentimenti propri ed altrui, concedendoci il tempo di ascoltare veramente noi stessi e gli altri, si può sperare ad un mondo meno violento.
Un saluto
Lorenzo
Grazie Lorenzo per lo spunto, anche il mio cammino sta transitando per l’importanza della comunicazione non violenta: mi segno il tuo titolo, ci sentiamo presto!
Più o meno quello che dici tu: insegnare ai figli che si è comunità, a vedersi allo specchio nei comportamenti che non ci piacciono negli altri per cercare di capire cosa non vediamo in noi stessi e almeno prenderne atto. Prendere atto di noi è il primo passo per avvicinarci agli altri anche quando esternamente si fanno portatori di messaggi contrari ai nostri. Perché come diceva sempre mia nonna: dobbiamo compatire. Forse è quella la chiave compatire noi e compatire gli altri e venirne fuori insieme alla meno peggio.
Hai ragione, mia cara: in effetti la compassione è la chiave di volta di molte delle letture che incrocio ultimamente, dalla mindfulness a Brené Brown. Compasssione per se stessi in primis e poi per gli altri.. anche e forse ancora di più quando è più difficile. Come diceva un vecchio meme, quanto più qualcuno – nel caso un bambino – ci irrita con il suo comportamento – tanto più dovremmo abbracciarlo e dirgli: “ti amo troppo per permetterti di comportarti così”….