Quando i figli da dolci, sensibili e intelligenti si trasformano in esseri a cui puzzano i piedi e le ascelle, dobbiamo prendere atto che è arrivata l’adolescenza. Ma quale adulto troveremo quando si sarà dissipata la nebbia fitta dell’adolescenza?
L’unica cosa che si può dire a sua discolpa è che era diventata mamma tardi, quando ormai i giochi sembravano fatti: aveva superato i quaranta ed era single convinta da così tanto tempo che si credeva le sue priorità fossero altre, che so: un viaggio coast to coast, una promozione sul lavoro, una notte di sesso con Di Caprio.
Invece era rimasta incinta dopo una notte di sesso (con uno che effettivamente doveva somigliare a Di Caprio) vincendo tutto: il titolo di regina del materasso a molle e due gemelli monozigoti con la faccia di Leonardo.
Da quando si era scoperta incinta – tardi, ché all’inizio aveva temuto si trattasse di menopausa – Agata aveva incarnato tutti i cliché della madrematerna new age. Aveva camminato con i piedi a papera mettendo tutti al corrente delle sue voglie e nausee mattutine; aveva passeggiato per i campi di girasoli abbracciando querce e mormorando mantra insensati tipo il respiro mi respira; aveva aperto i chakra, praticato la visualizzazione e ascoltato i rumori del bosco in cd-rom.
Se avesse anche praticato la lotus birth non lo so e non voglio saperlo, ché sono sensibile a certe cose e l’idea di un neonato attaccato alla placenta in putrefazione potrebbe togliermi il sonno.
I bambini nati da una tale gravidanza erano bellissimi, Agata li esibiva con un orgoglio smisurato che le si perdonava solo perché era talmente incredula lei stessa da far venir voglia di rassicurarla e dirle che sì, era tutto vero.
Tranne quando iniziava a vantarsi.
Perché Agata ti diceva senza mezzi termini che i suoi bambini non erano solo belli, ma i più belli.
E intelligenti: i più intelligenti.
E forti: avevano gattonato a sei mesi e camminato prima dell’anno.
A due anni usavano correttamente il congiuntivo e a tre già parlavano in inglese. Grazie a Dora Esploratrice, certo, ma soprattutto grazie al loro talento nonché innata tendenza al bilinguismo.
A cinque anni Agata li aveva iniziati a una disciplina sportiva per la quale avevano dimostrato una tale propensione che l’anno successivo erano stati avviati alla carriera agonistica.
A scuola erano bravi. Ho detto bravi? Volevo dire: bravissimi.
«Sono studenti brillanti. Nella pagella mi aspetto tutti 10, come del resto accadrà ogni anno» twittava lasciando sconcertati i suoi amici.
E poi i gemelli erano anche simpatici, socievoli, carismatici: «Dei veri raggi di sole e non perché siano i miei figli. Chi li conosce sa quanto siano fantastici. Persino gli insegnanti hanno dichiarato di non aver mai avuto degli studenti migliori.» rispondeva all’incolpevole amico che le chiedeva come stesse procedendo l’anno scolastico.
Eppure, incredibile a dirsi, la mia esperienza sul campo mi porta a dire che Agata non è nemmeno nelle prime tre posizioni nel girone delle mamme orgogliose.
Cosa accomuna questi genitori?
Il fatto di avere bambini sotto i dieci anni. Quella perfezione che tanti ragazzi sembrano avere finché sono bambini, con l’adolescenza di solito rientra nei ranghi.
L’ho visto anche con le mie figlie e i loro amici. Negli anni della scuola media, la presunta genialità si è rivelata un’intelligenza vivace e niente più. Il bel carattere ha cominciato ad avere qualche spigolo, la bella faccina qualche brufolo, sui corpi in crescita sono comparsi accenni di cellulite, i ragazzi sono diventati allampanati e hanno iniziato a girare per il mondo con gestualità da zombie. E questo solo per quanto riguarda l’aspetto fisico, perché se cominciamo a trattare la trasformazione emotiva e caratteriale potremmo non finire più.
Quello che vorrei dire ad Agata è che lo stesso accadrà lei, e si ritroverà sola. La sua sarà una solitudine diversa da quella delle neomamme, e sotto certi aspetti, peggiore: se le prime possono trovare conforto confrontandosi tra amiche e nel web, dove blogger ironiche raccontano le peripezie della maternità come se l’avessero brevettata, ai confini dell’adolescenza quella narrazione si ferma del tutto, o quasi. Non ci sono remore nel trattare faccende legate alle evacuazioni dei nostri trottolini amorosi ma un pudore improvviso ci assale quando i trottoloni diventano grandi e ci ignorano, ci mandano al diavolo, vanno male a scuola, bullizzano i compagni, ci riservano sguardi pieni di sufficienza e disprezzo e trovano la nostra visione del mondo così anacronistica da non aver cuore di dircelo.
L’adolescenza dei figli è quel momento nella vita di un genitore in cui bisogna tenere stretto il ricordo dei bambini che sono stati – sorrisi sdentati e mani paffute – o essere visionari a sufficienza per scorgere la persona che diventeranno quando tutta quella nebbia sarà dissipata. Una tempesta che si attraversa in solitudine, ché nessuno racconta volentieri dell’angoscia che assale nel vedere la bambina sorridente ed estroversa precipitare in uno spleen adolescenziale fatto di silenzi e porte chiuse, o del senso di sconfitta che prende lo stomaco quando si scopre che il ragazzino giudizioso adesso spaccia sigarette elettroniche nascondendole nello zainetto di SuperMario.
Mi sono convinta che questi anni turbolenti siano una specie di esantema che permette a genitori e figli di prendere le distanze gli uni dagli altri, com’è naturale che sia. Se saremo fortunati i ragazzi si limiteranno a trovarci vecchi, pedanti e ottusi. Di contro tutti noi, genitori adoranti dovremo prendere atto che le loro ascelle sudano, i piedi puzzano, i capelli diventano grassi. Così, in qualche modo scenderanno dal piedistallo in cui li avevamo messi, come noi genitori siamo scesi da quello in cui ci avevano messi loro.
Accadrà anche ai figli perfetti di Agata, com’è successo ai nostri. E, alla fin fine, non è detto che sia un male.