Un vecchio adagio dei corridori che si ispirano al natural running recita più o meno così: “La corsa è un continuo controllo della caduta“.
In sostanza il corpo deve sbilanciarsi in avanti e attraverso la forza di gravità, dare l’impulso che lo fa avanzare. Le gambe, a quel punto servono solo a non cadere.
Servono muscoli che tengano la distanza, serve allenarsi a tenere una frequenza di passo alta, ma la cosa divertente è che, una volta capito come funziona diventa tutto più facile. Certo, Rocky che avanza a ginocchia alte su per la scalinata in power running con “Eye of the tiger” in sottofondo magari gasa di più, ma provate a vedere quanto durate correndo così prima di disintegrarvi tendini e articolazioni.
Credo che questa della sensazione di cadere sia una buona immagine per il “lavoro” educativo che svolgiamo ogni giorno, sia che siamo educatori (quindi che sia effettivamente un lavoro), sia che siamo genitori. Personalmente, avendo la (s)fortuna di vivere il mio ruolo di educatore su entrambi i versanti, devo dire che mi trovo spesso a riflettere su uno stato di continua precarietà che diventa, a lungo andare, una condizione di vita (la “s” è tra parentesi perché a volte non so se sia un bene e un male, anche se altro nella vita, probabilmente, non saprei fare).
Provo a spiegarmi: da quando sono padre mi capita di ritrovarmi senza apparente motivo in piccoli stati di ansia. Nulla di grave, niente che non si risolva con due cubetti di cioccolato. Scavando un po’ mi rendo conto che i miei figli mi hanno regalato la felicità della genitorialità, ma anche un senso di precarietà ed incertezza che descrivo sempre come una sorta di quiete prima della tempesta. Che poi magari nemmeno arriva e davvero io non so se a volte non sia meglio la tempesta o il prolungarsi della precarietà. Dipende ovviamente dal tipo di tempesta. Però molto dipende anche da come si gestisce la precarietà.
Senza la pretesa di dare consigli, penso sia opportuno che la precarietà che viviamo sia un’occasione per valorizzare al massimo il momento che stiamo vivendo.
Io ad esempio sono terrorizzato dal fatto che i miei figli si possano ammalare di una malattia grave. Più che se dovessi ammalarmi io, per dire.
Cosa ci posso fare? Nulla, di base. Cerco di conviverci e mi sforzo (e davvero si tratta di uno sforzo di razionalità) di godermi i momenti. Non ci riesco sempre; non vi vendo ricette infallibili. Però cerco di farne tesoro di questi momenti.
Un altro esempio pret-a-porter è quello della scuola: con i nostri due figli più piccoli non è facile come con la sorella maggiore. Ad essere onesti è proprio una faticaccia. Le insegnanti ci dicono di seguirli un po’ di più, di stimolarli con dei ripassi. Alla sera siamo stanchi, con la pazienza e le forze in riserva.
Ci proviamo (mia moglie è più brava di me a tener duro, l’ultramaratona dovrebbe correrla lei). A distanza di qualche mese, anche se permane la tentazione di dire “dai, stasera no” devo ammettere che è diventato un bel momento da dedicarci. Un quarto d’ora, niente di trascendentale, tutto per loro che sta contribuendo a dargli anche una consapevolezza delle loro capacità, insperata fino a qualche tempo fa. Se non ci fosse stata la crisi, la convocazione delle maestre, le ore di recupero al posto di ginnastica, nulla di questo, forse, sarebbe successo. Magari sarebbe andata meglio, chi può dirlo.
Una volta, ad una formazione per famiglie di bambini in situazione di disabilità, portando la mia esperienza dissi che io avevo la fortuna di non avere figli disabili; il formatore (esso stesso genitore di una ragazza con disabilità) mi bacchettò chiedendomi come potessi io dire di avere una fortuna? Che ne sapevo io della loro situazione?
Non ho saputo rispondere e mi sono accorto di aver fatto anche una brutta figura.
Si vive la vita che ci è data, cercando di sfruttare le perdite di equilibrio come forza per andare avanti più veloci. Servono gambe buone e un cuore che tenga.
Attenzione: può essere anche molto bello.
Sono stata un’educatrice a lungo prima di diventare anche mamma e sono d’accordo con te, in effetti a volte ricoprire I due ruoli è una fortuna….a volte una sfortuna. Personalmente è una sfortuna perché sommata al fatto di essere stata una ‘primipara attempata’ (he sì, a 35 anni si viene definite così) mi son fatta davvero e continuo a farmi un sacco di seghe mentali, passami il termine, davvero inutili. Il rischio a volte dell’essere educatori professionali e genitori è di non riuscire a tenere I ruoli separati e di vedere quindi problemi dove di fatto non ci sono. Diciamo che la spensieratezza, la leggerezza, la sana incoscienza non sono proprio nel nostro DNA. Per me è stata anche una fortuna però lavorare a lungo con la disabilità e la malattia mentale prima di diventare mamma perché ho dovuto ben presto fare I conti con la presunzione che a volte sconfina nel delirio d’onnipotenza di voler controllare gli eventi, di determinarli secondo una logica di causa/effetto. Sono andata in crisi e ho potuto continuare a fare questo lavoro solo quando sono riuscita ad accettare la precarietà come requisito fondamentale dell’agire educativo, oggi si fanno due passi avanti…domani tre indietro. Per questo ciò che conta è l’oggi, me lo hanno insegnato ‘I miei ragazzi che ragazzi’ che mi ostino a chiamare così nonostante siano spesso più vecchi di me.
Grazie per il post. Tanta concretezza in così poche righe. La precarietà di cui parli, a me a scombussolato non poco. Diciamo che due cubetti di cioccolato non sono bastati e non bastano. Però quello che mi donano ogni giorno le mie bimbe è unico. Mi piace molto il concetto di disequilibrio per continuare ad andare avanti e non cadere. Da mettere in pratica ogni giorno.
Un saluto
Lorenzo