Com’è ovvio, tra le prime forze in gioco nell’educazione dei piccoli maschi e femmine c’è l’abitudine, intesa come la «tendenza a ripetere determinati atti, a rinnovare determinate esperienze (per lo più acquisita con la ripetizione frequente dell’atto o dell’esperienza stessa)» (Treccani).
Uno degli atti ripetuti più spesso dagli adulti di fronte a bambini e bambine e poi dei bambini e delle bambine tra loro, forzato dagli adulti, è il dividersi in gruppi a seconda del sesso. Questo comportamento, come tanti altri, ratifica l’usanza di dividere il mondo in cose da maschio e cose da femmina. Un modo di ragionare così stereotipato e tradizionalmente diffuso che non c’è quasi bisogno di fornire esempi.
Ci sono poi le abitudini del comportamento educativo. La vivacità che sarà lodata nel bambino come indizio di temperamento dominante verso il mondo circostante, sarà rimproverata alla bambina perché poco consona al suo più adatto ruolo di cura e di riflessione; quella sensibilità che nella bambina rassicura sulla sua indole ripiegata su di sé e sull’attenzione ai sentimenti, nel bambino viene decisamente rimproverata perché non adatta al comando, all’azione, alla risolutezza che nel maschio è considerata spontanea.
Siamo abituati a considerare sessualmente attribuite anche l’assuefazione al silenzio o la predisposizione all’espressione verbale: moltissimi genitori non si preoccupano dei bambini che parlano «tardi» o comunque poco, mentre sono preoccupati se una bambina di pari età ancora non parla fluentemente; e anche tra gli adulti è sempre ben vivo e vegeto il concetto sessista per cui le donne sono per natura più loquaci degli uomini.
Il risultato di queste abitudini combinate è noto: è considerato naturale per gli uomini parlare poco e agire molto, mentre al contrario è attribuita al sesso femminile l’innata loquacità unita a una certa irrisolutezza. Sarà il caso di cominciare a pensare che questi siano invece, come tanti altri, comportamenti appresi e non inscritti nel codice genetico di maschi e femmine.
Allo stesso modo siamo portati ad attribuire attitudini che riguardano il corpo dei bambini e delle bambine ritenendole innate, mentre si tratta di ovvi risultati culturali che il tempo ha ammantato di una dannosa abitudinarietà, di una pericolosa autorità tradizionale. In Italia il caso più eclatante è quello dello sport nazionale: il calcio. Ancora oggi chi avvia al calcio la propria figlia è considerato, nel migliore dei casi, un genitore eccentrico – e lasciamo perdere i beceri commenti di chi attribuisce alla pratica degli sport considerati maschili un chiaro indizio di orientamento sessuale, come ha fatto in un’occasione tristemente famosa il presidente della Lega nazionale dilettanti, Felice Belloli. La cosa divertente è che si vorrebbe dimostrare la mancata predisposizione delle ragazzine al calcio con lo scarso sviluppo tecnico dell’attuale gioco femminile italiano ad alti livelli; senza considerare la differente caratura tecnica delle giocatrici di altri paesi (il Brasile, tradizionalmente fucina di talenti calcistici; i paesi del Nord Europa, dove la parità dei diritti è cultura abituale da molti decenni; gli Stati Uniti, dove l’introduzione del calcio nelle scuole ha creato da molti anni una base enorme di ragazze praticanti) e il fatto che il professionismo tra le calciatrici, che legalmente non esiste a livello federale, è arrivato in Italia da pochi anni. Sostanzialmente, le giocatrici praticano il calcio che per gli uomini era quello dell’«età eroica» del gioco, come chiama lo storico Antonio Ghirelli il calcio prima degli anni Venti del Novecento. Ogni paragone con l’attualità del calcio maschile è senza senso: manca, al calcio femminile, quasi un secolo di storia – e di finanziamenti, e di popolarità – per essere paragonati con un minimo di criterio. La natura non c’entra nulla.
Dei colori rosa e azzurro, una comunissima differenziazione simbolica dei sessi, va detto esplicitamente come possa essere condizionante un’abitudine apparentemente così innocua. Su questo argomento la fotografa coreana JeongMee Yoon (The Pink & Blue Project continua dal 2005) ha compiuto una ricerca fotografica interessante quanto inquietante, che testimonia come la moda commerciale possa influire così tanto nella vita quotidiana da far credere che la scelta di un colore per i propri vestiti, i propri accessori, il proprio modo di identificarsi sia qualcosa di naturale e di innato. Tutte queste abitudini comportamentali e concettuali della società patriarcale non sarebbero tanto diffuse se non facessero parte di un sistema di potere che le approva, le alimenta e le diffonde incessantemente, attraverso una continua manipolazione simbolica e linguistica.
Infatti, oltre che naturale, ogni espressione di sé che non rientri nello schema rigidamente binario tra uomo e donna eterosessuali, e negli stereotipi che ne conseguono, viene etichettata come non «normale», mentre a tutti i bambini e bambine si raccomanda di attenersi a ciò che per il loro sesso, per la loro età, per il loro sviluppo, è considerato «normale».
La norma, racconta l’etimologia, era una speciale squadra per determinare quando un angolo è retto; dovremmo chiederci meno superficialmente a quale particolare rettitudine vogliamo conformare i più piccoli della nostra specie.
Tratto liberamente a cura dell’autore dal libro “Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni” di Lorenzo Gasparrini, Editore Settenove