Esce per andare a scuola con piglio sicuro, gira la testa verso la cucina mentre finiamo di fare colazione e con due parole ci saluta.
“Ciao, io vado!”, dice prendendo il violino vicino alla porta, fiero di questa nuova esperienza che lo differenzia dagli altri, lo rende più grande.
È ancora piccolo per me, ma le medie le ha iniziate ormai da qualche mese. Ha preso quest’impegno con serietà e rigore, senza rimpianti per ciò che fa parte del passato, per ciò che non è più.
Dal terzo giorno è voluto andare a scuola da solo, ha studiato il percorso più breve e s’incammina ogni mattina in solitaria, contando a bassa voce i passi fino al cancello grande.
La mattina si prepara in fretta, detesta arrivare in ritardo e per questo è pronto sempre in anticipo, quando esce sono ancora impreparata ad affrontare la giornata che inizia.
Mentre vado al lavoro lo immagino spesso, mi piacerebbe sedermi nel banco di fianco, per vedere a chi regala i sorrisi che spesso a casa volutamente nasconde.
Non resisto alla curiosità di chiedergli come va quando rientro dal lavoro, è più forte di me subissarlo di domande, anche se so dall’inizio che è la strategia perdente.
“Com’è andata a scuola? Ti hanno interrogato? Che prof hai avuto oggi, hai fatto verifiche?”.
Alla prima risponde a monosillabi senza guardarmi in faccia, alla quarta domanda non risponde più.
“Mamma, basta, hai finito?”
Rimango lì un po’ interdetta ogni volta che sbuffa, ha voglia di parlare solo quando decide lui, e mai a richiesta.
Dovrei accettarlo, e invece non riesco a farmene una ragione.
Il muro di silenzio mi induce a rinunciare.
“C’è stasera il papà?”, mi chiede tutti i giorni, aspettando trepidante la risposta. Non cerca me ma suo padre, più simile a lui nel carattere e nelle passioni. Quando lo vede mi accorgo che lo aspetta, con lui parla di calcio e delle gare sci, con lui è felice di poter suonare, facendogli ascoltare le note sussurrate dei nuovi pezzi che ha studiato nelle ore di musica.
Con lui non è obbligato a parlare se non deve, con me a volte si sente assediato, me ne accorgo.
Eppure non riesco a trattenermi.
Spesso i suoi sbalzi d’umore lo rendono scontroso e sfuggente, a volte diventa intrattabile e supera il limite, ci troviamo sul ring all’ennesima battaglia.
“La finisci?”
“No, non la finisco.”
“Smettila Mattia”.
Impossibile farsi ascoltare.
“Ma guarda questa…”, dice, quando la situazione degenera e provo a impormi all’ennesima provocazione.
Socchiudo la porta e con la coda dell’occhio lo vedo seduto alla sua scrivania. A testa bassa scrive, ripete, legge, sottolinea. Se mi vede alza gli occhi severo, scappo via e mi dileguo in cucina.
“Scusa Mattia, ti lascio studiare”.
Non dice una parola e torna a concentrarsi, riemerge dopo un’ora e prepara la sua borsa da calcio.
Mi segue fino alle elementari dei fratelli, nella mischia di genitori e nonni dell’uscita mi fa un cenno sbrigativo e si dilegua.
Da dietro lo seguo con lo sguardo.
Mi perdo dentro a questo suo piccolo mondo, chiuso in un guscio di vetro in cui spesso non riesco a entrare. Mi sento esclusa dalle confidenze strette, dalla complicità che troppo spesso ricerca all’esterno, lontano da me.
Lo rivedo bambino, nei pomeriggi uggiosi a leggere un libro insieme, aspettava quei momenti che erano solo nostri, li riservavo a lui per trovare del tempo esclusivo dopo la nascita dei suoi fratelli.
Lo rivedo bambino, con lo sguardo che da lontano sembra quasi lo stesso, gli occhi espressivi e scuri, l’aria volitiva di chi percorre il sentiero che ha scelto.
Ora come allora.
Il mio bambino grande.
Mattia.
Lacrimuccia!
Anche la mia bambina grande, che però è quella di mezzo, ora studia il violino, anche lei è molto precisa e puntuale, anche lei sta crescendo, con l’esempio della sorella grande dalle cui labbra pende 🙂
Lettura bellissima! A tratti commovente. Mi hai colpita al cuore. Grazie