La resilienza è quella capacità propria di ciascuno che permette a una persona, gruppo o comunità di prevenire, minimizzare o superare gli effetti negativi di una circostanza avversa.
Supponiamo per un momento che la resilienza non ci sia necessaria. Immaginiamo che la realtà attorno a noi sia stabile, formulata secondo regole coerenti e che basti comportarsi secondo queste per vederci assicurati tutti i nostri desideri. Costruiamoci monolitici, coerenti, perfettamente inquadrati nei nostri progetti e sistemi.
Senza resilienza, alla prima ferita rischiamo di dissanguarci, alla prima contrarietà ci lasciamo travolgere dal flusso della nostra rabbia interna, la prima modifica necessaria ai nostri progetti ci fa sentire dei falliti. La resilienza è la differenza tra il rigido tronco che si spezza per la tempesta e quello flessibile che sa piegarsi e anche se perde parte di sé, sa poi ritornare in piedi e ricostruirsi.
Raccontati una storia
Un approccio per ricostruire resilienza, quando non sia stata sufficiente a far superare le avversità, è quello della narrazione, sia come modo di espressione, sia come strategia di rielaborazione che consenta di uscire dagli schemi fissi e pericolosi delle storie che ci raccontiamo (si veda per esempio Boris Cyrulnik, “Autobiografia di uno spaventapasseri, strategie per superare le esperienze drammatiche”). Per dirla con lui:
“La retorica, attribuendo una forma verbale e gestuale agli eventi che racconta, struttura l’intimità degli individui. Forse, talune società facilitano la resilienza aiutando il ferito a intraprendere un nuovo percorso di crescita, mentre le altre lo impediscono raccontando la medesima tragedia?”
È un approccio complesso, su cui sarebbe preferibile farsi accompagnare, anche se in alcuni casi possiamo sperimentarlo in forma lieve già da soli, prendendoci il tempo per scrivere liberamente di un’esperienza che ci fa stare male e rivederla poi con uno sguardo più lucido per individuare meccanismi imprigionanti (“faccio sempre così”, “sono questo errore…” – anziché faccio questo errore ), vittimizzanti (“con quello che ho passato non posso fare altro”, “gli altri mi fanno sempre…”), depauperanti (“succede sempre così…”, “non cambierà mai”, “non guarirò mai”).
Come sviluppare la resilienza
È Edith Grotberg, ricercatrice all’International Resilience Project in The Netherlands, a proporci tre fattori che possono essere la solida base di sviluppo della resilienza e gli agganci per individuare – quale che sia la nostra storia – utili strategie da attivare con noi stessi e i nostri figli:
1. IO HO
Persone attorno a me di cui posso fidarmi e che mi amano, non importa che cosa accada
Persone che stabiliscono limiti e confini attorno a me così che io sappia quando fermarmi prima che io sia in pericolo o nei guai
Persone che mi mostrano come fare le cose nella maniera giusta mostrandomi come loro fanno le cose
Persone che vogliono che io apprenda a fare delle cose in autonomia
Persone che mi aiutano quando sono malato, in pericolo o ho bisogno di imparare
Strategia utile.
Mettiamo che … il nostro piccolo due-enne abbia scovato un vecchio straccio sporco con cui giocare e lo stia amabilmente succhiando, una buona strategia di costruzione della resilienza è trovare uno straccio pulito con cui giocare, togliendo di mezzo quello sporco mentre si spiega dolcemente perché non è il caso di giocare con lo straccio vecchio. Tutto questo – anche e soprattutto – se siamo terrorizzate dai germi e schifate dallo sporco: mettiamo a parte le nostre emozioni, mostrandoci fermi e capaci di costruire un posto sicuro in cui questa nuova persona possa sperimentare chi è.
2. IO SONO
Una persona che può piacere agli altri ed essere amata
Felice di essere gentile con gli altri e mostrare il mio interesse
Rispettoso di me stesso e degli altri
Desideroso di essere responsabile di ciò che faccio
Sicuro che le cose andranno per il verso giusto
Strategia utile.
Mettiamo che … la mamma di una giovane bimba inizi a lavorare in un posto lontano da casa e questa protesti perché vedrà meno la mamma, fino a quel momento il suo punto di riferimento.
Invece di farci sommergere dai sensi di colpa e reagire magari arrabbiandoci (perché il suo dolore fa leva sulla nostra incertezza, insicurezza e vergogna perché temiamo di essere giudicate negativamente dalle mamme degli altri bambini), una buona strategia per sviluppare resilienza è sottolineare quali altre persone saranno comunque a fianco della bimba per tenerla (IO HO), farla sentire amata (IO SONO) e compresa nel progetto della mamma (vado a lavorare per renderci possibile fare.. e fare.. o perché è necessario … e …), oltre a lasciare che esprima i suoi dubbi e le sue paure (IO POSSO) senza che diventino un metro di giudizio per come dobbiamo sentirci.
3. IO POSSO
Parlare con gli altri su cose che mi terrorizzano o mi preoccupano
Trovare modi per risolvere i problemi che devo affrontare
Controllarmi quando mi sembra di stare per fare qualcosa di poco giusto o pericoloso
Distinguere se è un momento in cui è meglio parlare con qualcuno o agire
Saper trovare qualcuno per aiutarmi quando ne ho bisogno
Strategia utile.
Mettiamo che … due fratelli si trovino da soli a giocare e uno dei due si faccia male – per esempio facendosi cadere addosso una sedia. Qualora l’altro intervenga in suo aiuto, prima di chiamare un genitore, spostando la sedia, per esempio, ci sarà sempre la necessità di ritornare sull’episodio per comprendere come si sono sentiti, l’uno e l’altro, se temono la punizione, se credono di essere responsabili di quanto è accaduto e nonostante lo spavento rinforzare quello che è stato positivo nell’intervento fatto.
E così via, crescendo assieme a loro: altri suggerimenti possono essere rintracciati nell’articolo “A guide to promoting resilience in children: strengthening the human spirit”.
Ma lo sai… che quando ho letto il titolo ho pensato… e bravi genitori che crescono e condividono e ho anche pensato scommettiamo che l’ha scritto lei? Silvietta? E avevo ragione e ti ringrazio di questo post e ti dò un ingrediente su cui lavorare per il prossimo post: imparare a lasciare andare… 😀 A presto
Grazie Monica! Questo tuo commento mi ha fatto tanto piacere perche’ mi ha ricordato quanto queste relazioni, che sembrano cosi labili e virtuali, siano state curate e seguite negli anni cosi che davvero e’ possibile riconoscersi, da un titolo, da uno spunto.
E poi grazie per lo spunto… personalmente ne ho un gran bisogno.. chissa’ che rifletterci per scrivere non mi aiuti un po’ (come accade di solito) 🙂
A chi lo dici… è la mio obiettivo di quest’anno, ma… non è facile… perché lasciar andare non è sinonimo di tralasciare, far finta che i problemi non ci siano, rimandare ciò che non ci è di peso, e così via, ma significa… cambiare atteggiamento, e questa è impresa per cui non basta saper fare, occorre anche saper essere… 🙂
p.s. le relazioni virtuali alla cui base si è creato un legame, seppure virtuale, durano all’infinito 😉
🙂
hai ragione a sottolineare che lasciare andare non è frutto di superficialità ma un atteggiamento diverso, più leggero di fronte alle cose. Riflettendoci è però proprio questo un aspetto del cambiamento che sto attraversando che mi piacerebbe curare. Un saper essere diverso per guadagnare in serenità ma anche per esplorare nuovi spazi che con la zavorra rappresentata da vecchi pensieri e atteggiamenti non mi riesco a concedere! ti terrò aggiornata se troverò il quid che mi ha fatto mollare a terra le zavorre 😉