Sara sostiene che i genitori degli anni Sessanta e Settanta non fossero solo genitori ma archetipi, categorie dello spirito. I loro principi educativi marciavano compatti contro noi bambini, educando futuri uomini e donne all’umiltà e al senso di colpa.
«Mia madre considerava la paura un valore» – racconta Patrizia – «Era importante, per noi bambine, avere paura del mondo e prenderne le distanze. La paura ci avrebbe difeso dai pericoli facendoci camminare per strada rasentando i muri; ci avrebbe tenuto al riparo da ambizioni e velleità, avrebbe castrato i nostri tentativi di autonomia e messe al riparo dai rovesci della sorte.»
«E ci è riuscita?» – Le chiedo.
«Anche troppo. La scorsa estate mi trovavo in viaggio con marito e figli adolescenti e tra noi è scoppiata la classica litigata delle vacanze, sai, quella che stempera le tensioni accumulate durante i mesi di lavoro. “Lasciatemi qui – ho urlato esasperata – ché torno a casa in treno!” Be’, lo hanno fatto, mi hanno lasciato in stazione. Peccato mi trovassi all’estero e non avessi la minima idea di come rientrare. Ero così esasperata dalla mia inettitudine che la prima reazione è stata telefonare a mia madre per recriminare. “Tu e la tua educazione castratrice!” – le ho urlato contro – “Bisogna aver paura! Bisogna aver paura! E ora per colpa di quella paura mi trovo qui, a cinquant’anni, in Alsazia. E non so come diavolo tornare!”»
La capisco. Cinquant’anni possono non essere sufficienti a scardinare l’eredità dell’educazione ricevuta. Io, ad esempio, dovevo essere umile. Dovevo proprio, capite, perché ogni bambino nel mondo là fuori sapeva fare le cose meglio di me. Rita, ad esempio, era bravissima a scuola e se io avevo nove in un compito, potevi star certo che a lei era stato dato un dieci. Ero brava a svolgere le faccende di casa, certamente, ma mai quanto Ferruccio, un bambino di cui ho iniziato a dubitare dell’esistenza solo in età adulta. Narra la leggenda che Ferruccio fosse così piccolo che per arrivare al lavello e lavare i piatti doveva arrampicarsi su una sedia, poi si ammalava e infine moriva (di fatica? Di raffreddore? Di lavaggio-piatti? Mai saputo). E insomma, potevo spolverare quanto volevo: non avrei mai surclassato il valore di un bambino morto nello svolgimento dei lavori domestici.
Non essendo mai sufficientemente brava, non ero neanche mai all’altezza dei miei giocattoli.
Il servizio-giocattolo da tè in porcellana bianca acquistato da Harrods, ad esempio, venne mostrato a me e alle mie sorelle per essere poi riposto al sicuro nell’armadio dei genitori. «Già abbiamo fatto il favore di regalarvelo, vorrete mica anche giocarci?».
Quel set di tazzine piccole e fragili divenne il paradigma della nostra mediocrità di bambine mai abbastanza brave, mai abbastanza educate, mai abbastanza diligenti, sicuramente inadatte a maneggiare tazzine in porcellana decorata. «Ricordo persino dove lo tenevano nascosto» – dice oggi mia sorella – «nel loro armadio, anta sinistra in basso, sotto i maglioni. Ogni tanto sgattaiolavo nella loro stanza per ammirare le tazzine di nascosto, sospirando per la perfezione di quel gioco che non avremmo potuto fare mai perché non eravamo abbastanza accorte».
Così quel set di porcellana è rimasto per anni a prendere polvere sopra qualche mensola irraggiungibile, mentre io e le mie sorelle ci scrollavamo di dosso la pesante eredità di disistima e sfiducia verso i nostri talenti. «È come essere cresciute con un tutore che, anziché sostenere, spingeva verso il basso» – ci diciamo nei momenti di recriminazione tardiva, ché niente come la maternità mette a fuoco i torti subiti quando i bambini eravamo noi.
Intanto mia madre, intristita per quella meraviglia rimasta inutilizzata per decenni, ha finalmente deciso fosse venuto per me il momento di giocarci e me lo ha ceduto. Non sapend più che farmene l’ho regalato a mia volta alle figlie che, ritenendolo insulso e fuori tempo per i loro standard di adolescenti viziate, lo hanno ignorato. E a me non è dispiaciuto nemmeno un po’.
Ciao!!
Inquietante la storia di Ferruccio! Io sono nata sul finire degli anni 70 ma il mix di tutti-più -bravi di te lo ricordo bene. Ogni tanto con un po’ di schizofrenia si univa un po’ di snobismo “non è al tuo livello ” (ovviamente riferito alle cose che più mi piacevano …. per cui a mia figlia di 5 anni ho comprato le scarpe tamarrisse piene di lucine e glitter. Che a me fanno schifo, ma se a lei piacciono ben venga).
Comunque in qualche maniera ne sono uscita e senza nemmeno troppe recriminazioni. ?
Diciamo che l’autostima me la sono costruita superati i vent’anni.
Mi hai fatto ricordare invece la mia bisnonna che teneva una bambola nell’armadio nascosta perché non adatta a noi bambine. E io già a dieci anni pensavo… bah hai novanta anni cosa ne vuoi fare (evidentemente un po’ stronzi si nasce).
grazie per il post
V
Bellissimo post…
Io sono cresciuta con una mamma che criticava qualsiasi cosa facessi o dicessi.. Ancora oggi 33 anni e due figli i suoi commenti mi destabilizzano molto meno rispetto a prima (visto che ci ho lavorato negli anni)ma comunque mi cambiano l’umore a volte il bello è che lei dice che non accetto le opinioni degli altri… Ma le sue non sono opinioni ? Comunque c’era sempre qualche altro bambino più bravo di me anche oggi ci sono figlie più brave di me… Pazienza…
Ma che fatica distaccarsi da etichette appioppate nel l’infanzia.. Tipo per mia madre era molto importante il giudizio degli altri è una delle cose più difficili e che faccio fatica a modificare di me… Scegliere senza farmi influenzare …
pensa che io ne ho cinquanta e mi vergogno di me stessa quando inizio la sequela di recriminazioni tardive. Purtroppo queste aumentano con l’avanzare dell’età. Ho dovuto fare n lavoro enorme su me stessa per ridimensionare l’importanza del giudizio degli altri. Be’, tutte cose che immagino tu possa capire bene 🙂 , comunque
Bellissimo post.
Io ho passato un’infanzia divisa tra una nonna, con cui passavo la maggior parte del tempo, e una mamma, che erano l’una il contrario dell’altra. Nonna era del ’25, mi pare, ed era la sua opinione, quella a cui tenevo. Per lei ero troppo disordinata, rispondevo troppo male e non volevo i codini. Mia madre era una sgarrupata figlia degli anni ’60. Per lei andavo troppo bene a scuola e rispondevo troppo male. Per mia madre non dovevo dar retta a mia nonna, e per mia nonna non dovevo dar retta a mia madre. Non si coalizzavano neanche nel tentativo di rendermi più docile o più umile.
Non capivo come dovevo essere, dunque sono cresciuta come mi pareva, e neanche troppo bene 😀
Ma recrimino solo la totale mancanza di abbracci. 🙂
Oddio sembra la mia storia!!!