Non ricordo di preciso quando mi sono “autodeterminato”, anche se indubbiamente il momento in cui andai a vivere da solo fu sicuramente il momento in cui la “mia” vita cominciò pubblicamente e abbastanza clamorosamente. C’è voluto però che diventassi padre per capire che quella dell’autodeterminazione è una storia, e non un gesto; è una strada, e non un evento. Per questo mi è molto difficile riassumerla in un concetto, una frase, un esempio. Mi vengono in mente due ispirazioni, due modi di intendere un rapporto a due che potrebbero essere due modi di intendere il problema dell’autodeterminazione per un padre.
Diceva, a suo modo, Ludwig Wittgenstein che io posso essere sicuro che qualcuno a cui ho spiegato il significato di una parola l’ha capito veramente solo quando vedo questo qualcuno usare la parola con altri, e che la usa nel modo in cui gliel’ho spiegata io. Io non ho altro modo per capire se sto facendo bene il mio lavoro di padre se non quando osservo – non coinvolto – mio figlio che in altri contesti usa gli strumenti per muoversi nel mondo che ha imparato da me. Solo in quel caso, quando lui decide di “usare” ciò che gli ho insegnato, posso capire se quello che è stato il mio rapporto con lui ha avuto un senso per lui o no.
Ed è qui che posso vedere, nello svolgersi dei fatti, l’autodeterminazione. Nel modo in cui lui userà e non userà qualcosa che riconosco venire da me, sarà evidente la sua capacità di determinarsi, di prendere una strada già segnata o di distinguersi, la sua volontà di ripetere un insegnamento o di interpretarlo e adattarlo alla sua vita. Questo mi porta a pensare che se m’interessa che i miei figli siano capaci di autodeterminarsi, più che strumenti per farlo io gli devo dare le possibilità di farlo.
Un’altra suggestione. “Un po’ di possibile, sennò soffoco” diceva Gilles Deleuze, ed è quest’altra frase che mi ricorda a quali condizioni si può parlare di autodeterminazione: se ci sono le possibilità di realizzarla. Se non avessi lavorato autonomamente, non avrei potuto permettermi un affitto, quindi di abbandonare la casa della mia famiglia. E questo vale per qualunque forma di scelta individuale, che è possibile se c’è un minimo spazio di possibilità tra le quali poter scegliere in piena libertà. Donare questa libertà, rendere possibili delle alternative, aprire spazi di possibilità sono tutti modi per costruire l’autodeterminazione altrui.
Se fino a qua il discorso mi pare comprensibile e attuabile, devo anche considerare che l’autodeterminazione è ciò che porterà i miei figli sempre più lontano da me. Non ho dimenticato che, la sera che annunciai il mio desiderio di andare a vivere da solo – ed ero maggiorenne da un bel pezzo, eh – non fu proprio una serata allegra, in casa. Cominciando da quali giochi scegliere, quali sport fare, continuando con i gusti dell’abbigliamento e della musica, e poi via via tra le mille scelte che li costruiranno come persone autonome, i miei figli si determineranno la strada che li porterà lontano da me, scegliendo tra tutti i bivi che sarò capace di mettere davanti a loro – oltre a quelli che, di suo, questo mondo costringe spesso a imboccare.
Eh sì, non va dimenticato che una vera e totale autodeterminazione non è mai possibile, in primo luogo perché nessuno sceglie da chi nascere, né dove, né quando. Trovare la giusta distanza tra questa storia già scritta e la propria ancora da scrivere è forse l’unico senso possibile per una autodeterminazione – e sta ai genitori renderla una storia il più possibile libera, fin dall’inizio.