C’è questo ricordo di mio padre che guida e mia madre che gli siede accanto, entrambi spaventati e pieni di pensieri che mi paiono dolorosi e definitivi. Il rumore del motore copre le frasi che si rivolgono l’un l’altro, colgo solo spezzoni a cui non riesco dare un senso compiuto.
Intuisco che qualcuno dei nonni sta male, sento parole nuove di cui non conosco il significato. Mio padre stacca una mano dal volante per posarla su quelle di mia madre, le dita intrecciate come in preghiera. “Siamo in prima linea” le dice.
Allora mi intrufolo tra i due sedili – era un’epoca in cui non si credeva nelle cinture di sicurezza – e chiedo cosa volesse dire. “Che prima erano i nonni a proteggerci e a decidere per noi. Adesso ci siamo io e la mamma”.
E questo era un male? – insistevo.
No, non lo era, rispondeva lui, era normale. Più si andava avanti con l’età, spiegava, più la vita si riempiva di problemi.
Questa era un’altra cosa che non riuscivo a capire. La vita – pensavo – aveva un numero finito di problemi, più o meno quelli che conoscevo anch’io, sempre gli stessi da milioni di anni. Come potevano aumentare?
Erano riflessioni che dimenticai subito, presto seppellite nelle paludi di una adolescenza infinita e poi dagli entusiasmi di una giovinezza che era andata protraendosi ben oltre i limiti anagrafici.
Appartengo alla generazione delle epoche fluide. Ho trovato lavoro a un’età in cui i miei genitori erano in carriera e partorito l’ultimo figlio poco prima di entrare in menopausa. Mi riferisco ai coetanei chiamandoli “ragazzi” senza alcun intento ironico e capita che mi vesta andando a pescare i capi nel guardaroba delle figlie adolescenti.
“Siamo la prima generazione di donne che devono decidere cosa fare da grandi a un’età in cui i giochi sembravano fatti” ha dichiarato Silvia dando voce a un pensiero confuso che non mi ero sforzata di mettere a fuoco.
Nel mio curriculum vanto matrimoni e convivenze, figli e lavori, bollette pagate alla scadenza dei termini e cartelle Equitalia, eppure neanche adesso riesco a pensare a me stessa come a una persona di mezza età. Da qualche parte nella mia mente è nascosta la convinzione che, indipendentemente dalle zampe di gallina e i capelli bianchi, io sia ancora una ragazza.
“Ma non lo sei. Sei vecchia” mi apostrofano le figlie – che ragazze lo sono per davvero – rimettendo le cose nella giusta prospettiva anagrafica.
E siccome sono ragazze, fanno tutte le cose che ci si aspetta da loro. Lasciano la propria roba in disordine, sbuffano, recriminano, rispondono insolenti, tornano tardi la sera senza rispettare gli accordi per il rientro.
Così succede una cosa sgradevole: succede che mi trasformo nella mamma pedante, assillante e lamentosa che avevo giurato a me stessa di non diventare mai. Dico cose come “questa casa non è un albergo”, “io ti ho fatto e io ti distruggo”, “aspetta che lo dica a tuo padre”, e anche “ne faccio, io, di cose che non mi piacciono!”.
Ed è stato proprio durante uno di questi momenti di fisiologico scazzo familiare che mi sono resa conto che faccio anche altro, oltre che ripetere le frasi che mai avrei voluto pronunciare. Lavoro, cucino, vado ai colloqui con i professori. Rimango alzata la notte ad attendere il l rientro delle ragazze, critico le loro amicizie e condanno comportamenti biasimevoli. Controllo i loro compiti. Compro i libri di scuola. Rinnovo abbonamenti. Le accompagno dal dottore. Stiro di notte per terminare quello che non sono riuscita a fare durante il giorno.
Poi, finito di preoccuparmi per loro, inizio a farlo per i miei genitori e i miei suoceri.
Loro stati dei gran lavoratori e adesso si stancano subito, passano da un malanno all’altro e guardano al sopraggiungere della stagione fredda con un’angoscia nuova e inaudita.
“Questo inverno dovremo pensare anche ai nostri genitori” ho detto allora a mio marito pensando a una polmonite di mia suocera che sembra non guarire mai.
Dunque era così che va a finire, ho pensato allora, ci si trova schiacciati tra le responsabilità verso i nostri figli e quelle verso i propri vecchi, attenti a mantenersi in equilibrio tra vita e lavoro.
Mio marito ha aspirato la sigaretta e ha soffiato fuori il fumo per un tempo lunghissimo, perso dietro qualche pensiero doloroso e definitivo. “Siamo in prima linea” ha detto infine.