Tra le forme di comunicazione più tipiche del rapporto tra padri e figli, c’è senza dubbio la paternale. Dice il vocabolario: “Rimprovero grave e severo, ma non aspro, fatto dal padre ai figli […] soprattutto al fine di correggere, di far ravvedere”.
Lo stereotipo della paternale lo conosciamo più o meno tutti, e si compone anche di una parte antecedente e conseguente: ‘prima’ il padre è avvisato o informato delle malefatte della prole da una terza persona, generalmente la madre; segue poi la paternale, più o meno grave a seconda del suo svolgersi in pubblico o in privato tra padre e figlio/figlia; atto finale, a mo’ di pentimento o contrizione, l’ammissione pubblica della propria colpa da parte del figlio/figlia e seguenti ‘varie ed eventuali’ azioni punitive e/o comprensatorie. In sostanza il padre si fa giudice e si inscena, pur nelle varie differenze, un mini-processo senza istruttoria, senza difesa e senza controinterrogatorio.
Il contenuto della paternale passa solo da padre a figlio, che può accettare o rifiutare in blocco quello che gli viene comunicato (in genere ciò accade in corrispondenza di determinate “età” della prole); vorrebbe essere una forma di insegnamento, di ammaestramento. Il problema però è che, per come è strutturata, essa è una forma di comunicazione puramente verbale. Quindi basa tutta la sua efficacia su una precedente importanza data alla “parola del padre” nel contesto familiare.
E’ chiaro che la paternale appartiene a un modello di autorità familiare nel quale il padre è giudice, autorità suprema, e in genere non presente nelle quotidiane dinamiche familiari – motivo per cui antecedente alla paternale è il resoconto di quanto accaduto. La sua efficacia è proporzionale all’effettiva inappellabilità della parola paterna. Per fortuna – credo – questo modello di autorità paterna è del tutto superato dalla realtà, e continuare a usarlo – come si vorrebbe fare con le paternali – si rivela spesso una semplice perdita di tempo.
Da molti anni, giustamente, fin da subito i genitori si dividono la vita familiare quotidiana secondo un modello il più possibile paritario, o per lo meno compensatorio delle differenze di disponibilità della coppia. Questo significa che figli e figlie vengono al mondo in una situazione di per sé ‘dialogica’, nella quale l’autorità in famiglia è distribuita più o meno uniformemente tra le due figure principali genitoriali e spesso anche a terzi che, per forza di cose, ne fanno parte di fatto (penso ai benemeriti nonni che ancora, nella situazione italiana, spesso fanno le veci di servizi pubblici inesistenti).
La “parola del padre” quindi è fin da subito in realtà mitigata nella sua autorità da quella materna, altrettanto pesante e influente, senza che ci sia una troppo rigida divisione di tempi e competenze; la fermezza del “no”, l’importanza della sincerità rispetto alla bugia, il rispetto da usare nel linguaggio e nelle espressioni di critica o di disapprovazione, sono procedure che ormai i genitori gestiscono insieme, e che quindi non si caratterizzano più per essere a esclusivo carico del padre-giudice supremo.
Questo toglie indubbiamente efficacia alla paternale; ma credo che in questo modo quello che era una specie di pantomima di un processo si sia trasformato sempre più in un più civile e amorevole procedimento dialogico di riconoscimento dell’esempio, dell’autorità, del rispetto. Sebbene indubbiamente più difficile nei fatti, quest’ultimo modo di procedere porta a risultati alla lunga migliori. Dico difficile nei fatti perché – come molti genitori sanno – un modello dialogico di gestione dell’autorità può esser facilmente distorto; sia da screzi tra le due (o più) fonti dell’autorità (come ad esempio si manifesta nella famigerata frase tra coniugi “guarda un po’ che cosa ha combinato tuo figlio”), sia dalla notevole capacità della prole di sfruttare argomenti o atteggiamenti ad personam atti a mitigare la portata dell’incombente rimprovero o punizione. Mai come in questo caso, quindi, l’accordo tra genitori dev’essere mantenuto saldo.
Penso a risultati migliori soprattutto nel rapporto col padre e con l’autorità in genere; possibile che il padre debba essere solo quello presente per distribuire premi o punizioni?
La comunicazione dev’essere sempre uno scambio, e deve avvenire in più modi contemporaneamente, o si trasformerà in qualcosa di imposto e di inefficace. La classica paternale prevede un padre “in alto” che parla a un figlio o a una figlia “in basso”; preferisco, per decidere di un comportamento ed eventualmente delle sue conseguenze e responsabilità, che siano presenti più occhi e più orecchie per valutare insieme, e più corpi e più mani per abbracciarsi e dire soprattutto quello che nessuna paternale ha mai comunicato.
– di Lorenzo Gasparrini –
Gerard ter Borch (II) – Paternal Admonition
Beh intanto lo facciamo leggere al maritozzo!
Comunque è vero che spesso mi sento un po’ scema a fare poliziotto cattivo/ poliziotto buono.
La mia duenne l’altra sera mi ha gelato dopo un rimprovero dicendo: “Voglio papà” “perché non urla?” “Si!”
Mi sono sentita un po’ pessima!
Complimenti per l’immagine finale! Bellissima!
Grazie per le vostre risposte: sono felice di sapere sia che ci si ricorda poco delle parole e più dei gesti, sia che passando le generazioni i padri migliorino comunque nella comunicazione. Oso credere, però, che presto ci metteranno meno di una generazione a darsi una svegliata 🙂
A casa nostra si fa la maternale e la paternale. Nonostante il bel rapporto tra me e mio marito, in più di un’occasione ci siamo trovati a gestire situazioni con i figli in stile anni ’60. Tipo che io racconto successi/marachelle e il padre interviene con la paternale.
Con i giusti smussamenti e magari un accordo preventivo tra noi genitori, devo dire che la paternale funziona molto.
Essendo molto più presente di mio marito, io non posso svolgere sempre tutti i ruoli, poliziotto buono e cattivo, coccole e urlate. Cioè lo faccio, ma dopo un po ‘ mi stresso. Invece è così bello avere un uomo che sa fare la paternale ai figli…
Se penso a mio padre, uomo degli anni ’40 e in teoria più antico, che in casa non ha mai aperto bocca su niente…
La paternale meno paternale di mio padre fu quella in cui lui tentava di elicitare una ‘confessione’ su fatti di cui era precedentemente venuto a conoscenza, semplicemente perchè non aveva idea di come cominciare a parlare con me dell’ evento concreto di miei appuntamenti con maschio non meglio definito. Gli mancavano proprio gli strumenti su come affrontare il discorso, io non capivo dove volesse arrivare con tutto quel cincischiare imbarazzato, fino a che non ebbi il lampo di genio: gliel’ hanno detto e lui finge di non sapere niente. E bon, pace, quello fu l’ ultimo atto della mia fase post-edipica di papa-girl e da allora non ci furono più ne confessioni ne paternali.
e ancora me lo ricordo quell’ imbarazzo del poveruomo che non sapeva come fare discorsi adutli a una figlia, ma perlomeno ci stava provando.
La mia variante personale di paternale era quella che mi faceva mio papà al liceo: una predica luuunga e circostanziata, qualche mal di pancia sul mio futuro se trasgredivo in qualcosa a cui lui teneva, poi mi abbracciava e mi diceva che mi voleva bene.
Le parole della paternale non le ricordo molto, ma l’abbraccio sì, ed è un ricordo che ancora oggi mi commuove.