Parola d’ordine “naturale”: partorire nei Paesi Bassi

Esistono parti di prima classe o di seconda classe? C’è davvero bisogno di definire un parto vaginale come naturale, facendo sentire totalmente sbagliate le donne che per qualsiasi motivo non possono farlo? Daniela ci ha inviato il racconto del suo parto in Olanda e il suo confronto con un sistema che spinge moltissimo verso la naturalità.

La nostra doula vive a meno di 200 metri da casa nostra, ad Haarlem, nel tranquillo quartiere Leidsebuurt. Ci viene a trovare una sera in tarda primavera, beviamo limonata in giardino, di lì a una settimana finisco il tempo: sta per arrivare la mia prima figlia e vivo tutte le impazienze e le piccole emozioni di cui si carica l’attesa alla fine. Sono languida e tenerona come un grosso pachiderma. È qui che lei inizia quella che per me è una conversazione surreale:

“Se decidi che vuoi partorire in casa in maniera naturale puoi sempre cambiare idea, nessuno ti costringerà ad andare in ospedale, sappilo.”

Finisco di deglutire e rispondo: “Grazie, ma non penso che accadrà.”

“Davvero, non ci sarebbero problemi.”

“Prendo atto, serio, ma sappi che non succederà, sono davvero, davvero contraria al parto in casa.”

“Molte donne pensano che queste decisioni siano irrevocabili, ma le ostetriche hanno tutto in auto, quindi non sentirti sotto pressione se preferisci un parto non medicale nell’atmosfera di casa…”

Io: “Bene, abbiamo infine appurato tutto ciò, mi pare di capire. Apprezzo la tua preoccupazione ma – seriamente – non mi sento costretta in alcun modo e l’idea di partorire a casa mi terrorizza nell’intimo. Se dovesse rendersi necessario mi verrebbe come minimo un coccolone.”

Languida OK ma che diamine!

Quando rimani incinta ed esibisci un grado di salute psico-fisica soddisfacente, nei Paesi Bassi non ti segue un ginecologo bensì un’ostetrica. Anche se sei una vecchia ciabatta come me. Salvo complicazioni o esigenze particolari, l’intera gravidanza la si trascorre senza una singola visita ginecologica, con un solo prelievo di sangue attorno al terzo mese – niente tamponi e monitoraggi: un medico, insomma, non lo vedi nemmeno di striscio, giusto qualche volta il tuo medico curante (che mi tagliò via un emangioma comparso durante la gravidanza quasi senza avvisarmi, mentre mi visitava per vedere cosa fosse: “io lo taglio e poi vediamo eh”). L’assicurazione medica, privata e obbligatoria per chiunque abbia un reddito, copre solo il parto in casa assistito dall’ostetrica, al netto di emergenze mediche che richiedono interventi in ospedale o indicazioni di rischio.

Durante il colloquio preliminare, alla decima settimana di gravidanza, la nostra ostetrica ci racconta che la metà delle donne olandesi sceglie di partorire in casa, ma successivamente leggo che un buon numero di queste puerpere conclude l’esperienza in ospedale, poiché si rendono necessari degli interventi. Chi, come me, sceglie il parto in ospedale senza comprovati motivi (“ho paura di morire dissanguata come nel diciannovesimo secolo” non rientra tra i comprovati motivi, pare) deve pagare una tariffa che nel nostro ospedale è di circa 4-500 euro, e di fatto si viene comunque seguite solo dall’ostetrica: la clinica in questo caso funge semplicemente da camera d’albergo in cui andare a gridare a volontà. Però, un albergo con un reparto di terapia intensiva neonatale a pochi passi, e dei medici a portata d’orecchio. Questa è l’opzione che scegliamo.

Solo due o tre settimane prima dell’appuntamento con la doula, al primo colloquio con l’assistenza alla maternità (il Kraamzorg, un servizio meraviglioso che purtroppo non ha corrispettivi italiani, che segue la famiglia e la puerpera durante i primi giorni dopo il parto e dà una mano con le faccende domestiche ed eventuali altri bambini) l’infermiera mi aveva detto “eviti di comprare i biberon, tanto vuole fare tutto naturale, no?”. All’ottavo mese, ormai, avevo smesso da tempo di contare il numero di persone che mi aveva incitato a fare le cose in maniera naturale. Che poi comprende una galassia di cose: un parto senza medici, monitoraggi, ospedali, interventi, sollievo dal dolore, per un’esperienza che “restituiva alla donna il potere che le era stato tolto” (mia citazione inventata di sana pianta ma cose così ne ho sentite un gazilione) dalla cricca di medici bruttoni e cattivoni, sempre tesi a cospirare al losco scopo di ridurre le morti perinatali e materne. Sembravo essere l’unica a stupirsi che il parto vaginale, decimatore storico di donne e bambini fino all’altro ieri al pari di pestilenze e morbi, venisse considerato la scelta più sicura.

Ogni paese ha i suoi nodi nevralgici. Ci sono paesi come l’Italia in cui tutto il dibattito si concentra attorno ai temi dell’aborto e della contraccezione, e paesi come l’Olanda in cui l’attenzione si sposta sull’esperienza originaria. Nella mente della gravida olandese deve esistere il desiderio di andare a figliare in una caverna nel bosco, da sola, tagliandosi il cordone coi denti e appoggiando il bimbo su una cesta intrecciata da lei durante il travaglio, coi rami di un noce abbattuto per l’occasione con l’aiuto di un paio di selci.

Scherzi a parte, lungi da me sminuire l’importanza di un parto vaginale, ci sono cose fantastiche legate all’esperienza che ormai sono qui entrate nella prassi, come la possibilità di attendere che il cordone smetta di trasferire sangue al neonato prima di tagliarlo (affinché abbia le sue riserve di ferro complete) e la creazione di un ambiente che aiuti la puerpera a produrre endorfine come antidolorifico naturale. Sulla storia del cordone ci siamo anche fatti delle sonore risate: a ogni colloquio con le ostetriche, la doula, il corso preparto e i vicini, hanno tutti chiesto all’Uomo se il cordone lo avrebbe tagliato lui. All’inizio lo vedevo rabbrividire, ma a lungo andare ha ceduto e ha detto “Sì, va bene, lo taglio io ‘sto cavolo di cordone, OK?”.

Ci sono tuttavia alcuni miti sul parto vaginale che mettono un po’ in ombra la realtà dei fatti e che a mio avviso possono determinare situazioni di pericolo.

La mia esperienza

Scelgo l’opzione di partorire in ospedale senza indicazione medica perché personalmente provengo da realtà in cui partorire in casa non è previsto, e perché non sono il tipo da vagheggiare il passato preindustriale. Un pensiero che non smette mai di assillarmi è che il primo giorno della nostra esistenza è anche il più pericoloso. Voglio che – qualunque cosa accada – la mia bambina viva e sia in salute, grazie!

Di fatto non vedo mai un medico fino al giorno in cui vado a fare il monitoraggio pre-induzione perché la bambina ha deciso che in fondo si trova bene nella pancia e va sfrattata con le cattive. A quel punto, il mio parto viene trasferito al team di ginecologia dell’ospedale e le ostetriche si fanno da parte. Il primo medico che si occupa di assistere gli esseri umani che vengono al mondo che vedo è la caporeparto di ostetricia dell’ospedale di Hoofddorp, che entra nella mia camera in clinica trafelata, la sera del ricovero, con un foglietto che avevo dato al team in mattinata e su cui c’era scritto che ho una mutazione genetica piuttosto frequente. La dottoressa cerca di nascondere la preoccupazione per non farmi agitare ma la vedo turbata: “perché non ha fatto vedere questo foglietto alle ostetriche?”.

“L’ho portato con me alla visita di ammissione, hanno detto di non averne mai sentito parlare ma che si sarebbero informate.”

“Lei sarebbe dovuta essere selezionata per un parto medicale sin dall’inizio. È a maggiore rischio di trombosi in gravidanza, non lo sapeva?”.

“Sapevo di doverlo mostrare al team che mi seguiva in gravidanza. E pensavo di averlo fatto.”

Questa faccenda mi ha fatto capire che c’è una guerra in atto, fatta di piccole battaglie per il territorio, alla cui origine c’è una relazione disfunzionale tra ostetriche e medici, che lavorano a compartimenti stagni. La mia mutazione – al gene MTHFR – è estremamente frequente. Si ipotizza che riguardi fino al 30% della popolazione europea, e richiede, ho scoperto poi, una gestione diversa del parto, monitoraggi più frequenti e integratori alimentari mirati. E io che avevo assunto il normale acido folico per mesi, vomitando come fossi posseduta dal dimonio ogni singolo bicchiere d’acqua fino al giorno in cui, sfinita, ho smesso di prenderlo!

La doula aveva parlato di pressioni per il parto medico, ma l’insistenza di tutti verso un parto vaginale senza personale medico ha superato ogni concetto di pressione arrivando quasi a sfiorare la molestia. Pur non rientrando tra i candidati classici per il parto non assistito, le ostetriche hanno fatto il possibile per inserirmici per forza, volutamente ignorando i dati sulla mia situazione, in virtù o di una crassa ignoranza o di un’ideologia che a questo punto chiamerei scellerata.

In questa filosofia c’è, a mio personale avviso, una serie di miti pericolosi da sfatare. Intanto, il rischio di cercare di fare di ogni parto un parto normale è grave e grande. Non bisogna insistere a ogni costo, è importante capire dove fermarsi.

Un altro problema è l’abitudine di riferirsi ai medici come a dei piantagrane, usando un sottile linguaggio diffamatorio teso a minare la fiducia che hai nei loro confronti. È necessaria la collaborazione e l’attenta valutazione, senza fanatismi.

Infine, l’esaltazione dello stoicismo della madre che partorisce senza epidurale è una cosa che sposta la problematica del dolore nell’universo della morale, la carica di valori e produce sensi di colpa in chi per diversi motivi se ne serve: cosa che avviene di rado in altre situazioni della sfera clinica (avete mai sentito parlare di colonscopia naturale, o di estrazione naturale del dente del giudizio?).

Se i numeri finali parlano di una percentuale consistente (il 50?) di madri costrette a subire un intervento, è davvero necessario calcare tanto la mano e sminuire la loro esperienza con un linguaggio così sovraccarico? Il problema con il termine “naturale” è che se un buon numero di parti si conclude con un intervento, dalla foratura del sacco al cesareo, passando per induzioni, epidurali, episiotomie e quant’altro, allora si sta crudelmente svalutando un evento cardine per milioni di donne, in un momento in cui hanno bisogno di tutto il sostegno possibile. Perché non usiamo “vaginale” invece?

Concludo il mio racconto e aggiungo una riflessione. Il giorno più pericoloso delle nostre vite è il giorno in cui nasciamo. Per quanto mi riguarda, sento di non aver ricevuto sufficienti informazioni in merito da parte del personale responsabile. Ho invece subito mesi di bombardamento velato, fatto di sottili insinuazioni che denigravano epidurali, gestione del dolore e parti cesarei, con il risultato che quando la bambina non è arrivata e si sono resi necessari prima l’induzione e poi un cesareo d’urgenza, mi sono sentita colma di sentimenti di colpa e di sincera angoscia. Ciò che è naturale per molti non lo era stato per me. Mi sono sentita incapace di partorire in maniera normale: una madre artificiale, finta.

Per fortuna, le esperienze positive hanno eclissato quelle negative, a cominciare dal personale dell’ospedale – ginecologhe, infermiere, ostetriche, ovvero quelle stesse persone che meno di tutti avrebbero avuto a cuore il mio benessere, secondo la logica esposta più su – che si è rivelato a dir poco eccezionale e ha rimesso in pari ogni torto. Queste donne (mi sforzo seriamente ma non ricordo un singolo uomo in ostetricia e ginecologia) hanno dimostrato umanità, sensibilità, dolcezza, competenza, prontezza. Un episodio su tanti: il latte non arrivava, e per chi sceglie di allattare non si usano i biberon per qualche giorno, per non interferire con la capacità dei piccini di attaccarsi. La bimba aveva molta fame (la nostra è una tramoggia da sempre) e io avevo il panico e gli occhi pieni di lacrime. Ebbene, l’infermiera di turno si è seduta sul letto accanto a me e mi ha abbracciato, spiegandomi in inglese che non c’era nulla di cui preoccuparsi e che queste in olandese si chiamano le “kraamtranen”, le lacrime della puerpera. Che sono una madre eccezionale e che non c’è nulla che non vada in me. Ancora mi commuovo al pensiero.

Questo, oltre naturalmente al legame con la piccola, mi ha curato dalle iniziali idee di inadeguatezza e mi ha fatto capire che un buon parto, in ultima istanza, è quello in cui madre e figlio sopravvivono e sono in salute.

Qui trovate una statistica sui parti in Olanda.

– Daniela Vladimirova

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5 thoughts on “Parola d’ordine “naturale”: partorire nei Paesi Bassi”

  1. Grazie per questo articolo , anche se mi ha fatto crollare un po’ il mito di uno dei paesi del nord che sembrano sempre davanti a noi.

    Sul parto in casa rabbrividisco, grazie a Salvo di Grazia (medbunker) avevo letto un blog chiamato hurtbyhomebirth che mi ha sconvolto abbastanza. Lettura fatta dopo il secondo parto, in cui avevo fatto tutta la gravidanza seguita da ostetiche.

    Entrambi i miei bambini sono nati in un ospedale del nord Italia feudo di CL dove il naturale ha un’aura di misticismo. Però seguono più di 1500 parti l’anno e hanno uno dei reparti di neonotologia più forti della Lombardia. Quindi essendo anche io fortemente convinta che il primo giorno sia il più rischioso l’ho scelto con convinzione (l’alternativa era ospedale con epidurale molto più libera, ma fatta da un solo anestesista, quindi con il 60% di possibilità di non averla).

    Comunque mi fa veramente arrabbiare come ci sia ancora tanta pressione a far sentire inadeguate le donne.

    Scusa la lunghezza
    V

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  2. Io ho partorito in Germania dove per fortuna la situazione e’ meno estrema che in Olanda. Pero’ ho vissuto sensazioni simili per l’allattamento al seno, con un bambino che non riusciva ad attaccarsi e il mio seno che era visto come bene pubblico di qualsiasi infermiera di passaggio (non solo in ospedale ma anche nello studio dove hanno tagliato il frenulo corto a mio figlio per favorire l’allattamento). Un’esperienza tremenda che e’ durata per tre settimane quando l’ostetrica che veniva a casa a aiutarmi mi ha suggerito di passare al biberon aggiungendo pero’ che ben poche sue colleghe avrebbero approvato una scelta simile e tanto meno l’avrebbero consigliata….

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    • in realtà temo il contrario, nel senso che comunque non sei lasciata da sola, e quindi devono provvedere a seguirti in modalità “uno-a-uno”, nonché essere pronti per eventuali emergenze, e la potenziale distribuzione nel territorio e potenziale contemporaneità di casi rende il tutto molto complesso da gestire, quindi secondo me alla lunga più costoso per il sistema sanitario. La cosa più “comoda” e tutto sommato meno cara secondo me sarebbe il cesareo a catena di montaggio, per dire.

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  3. *applauso* e grazie!
    A molta gente bisogna ricordare che e’ naturalissimo morire di parto per entrambe le persone coinvolte.

    Ho avuto un parto molto simile al tuo (bimbo che non vuole nascere, induzione, cesareo d’urgenza) ma nel paese in cui vivo (la Repubblica ceca) la cosiddetta naturalita’ e’ ancora abbastanza circoscritta per cui non mi sono mai sentita giudicata o una madre imperfetta (anche se alcune infermiere erano un po’ troppo scafate, del tipo: hai voluto il pupo? adesso goditelo, non c’e’ tempo per riposare!)

    Congratulazioni e Auguri!

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