Un’estate a testa in giù.

australiaLa mia estate simbolo… è stata d’inverno.

Viaggio di lavoro, per entrambi, 6 settimane in Australia, a gennaio. Con un bimbo, il primo, di neanche un anno: avrebbe festeggiato lì il suo primo compleanno.

Un sogno? Certo che era un sogno che si avverava. Dubbi? Certo che avevo dubbi (io, eh? Il Mister era tranquillo come uno stagno) la decisione di partire è stata ponderata molto e dolorosamente, essendo io quale sono. Ma la voglia di cedere alle lusinghe di questa avventura è stata più forte e non si è fatta sopraffare dai dèmoni (in particolare dallo scetticismo di familiari e affini) e quindi, l’ultima settimana dell’anno, siamo partiti, e abbiamo passato il capodanno sul mare, al caldo, alieno quanto piacevole, dell’estate down under.

Credo sia stato l’inizio di uno dei periodi più esaltanti della mia vita.

Vivere non solo a migliaia e migliaia di chilometri da tutto e tutti, ma soprattutto in un fuso orario praticamente yin/yang (a mezzogiorno quando tutto il resto del globo conosciuto è a mezzanotte, e viceversa) è una delle esperienze più catartiche che esistano, se non fosse per problemi di praticità di implementazione consiglierei a tutti di provarlo.

Lo avremmo infatti provato per la seconda volta due anni dopo, questa volta senza remora alcuna, anche se con due figli al seguito invece che uno.

Vivere 6 settimane in Australia. E per vivere intendo vivere, non “stare in vacanza”. Vivere come andare in ufficio, fare la spesa, occuparsi dell’appartamento, mandare i figli all’asilo (la seconda volta), e così via. Per me questo è l’unico modo di fare davvero esperienza di un posto nuovo, l’unico modo in cui mi sento di voler partire: “viverci” quanto più fedelmente possibile, anche se per poco tempo, non sono una grande fan dei viaggi come vacanza, turismo, relax e al diavolo i dettagli noiosi della vita. I dettagli sono importantissimi, per me, tutti; ogni singolo, piccolo, insignificante di essi.

E di dettagli è stata piena questa permanenza, tutte e due le permanenze infatti. Belli ed entusiasmanti, questi dettagli, ma anche intimi, anche se non certo meno entusiasmanti.

Nella prima permanenza sono stata lì a combattere con una depressione post parto che ancora non avevo capito di avere. Ad amare ogni singolo istante di quella vita tutta nuova, ma al contempo a scoprirmi insofferente, più che angosciata, forse per la prima volta.

E improvvisamente, durante un pomeriggio passato in spiaggia, ecco che un pensiero preciso prese corpo, una semplice constatazione, niente di trascendentale, eh? Il pensiero fu il seguente: “sarebbe il paradiso, se non fosse per lui“. Ognuno ha le sue epifanie, la mia è stata questa. Verbalizzare questa frase, anche se tra me e me, con il “lui” in questione che sciacquettava i piedini sul bagnasciuga davanti, è stato terrorizzante, ma anche liberatorio. Cavolo, l’ho pensato e…. niente, nessun cataclisma si è materializzato, nessuno è scomparso, il sorriso scioglighiacciai di Boy-One non ne è stato intaccato. L’ho pensato. E basta. L’ho pensato a testa in giù, ma il mondo non se n’è accorto. L’ho pensato e ora possiamo archiviare questa frase, etichettarla come “avvenuta”, e andare avanti, finalmente. Possiamo anche pensare di ipotizzare un futuro.

E il futuro, non so se in una botta di incoscienza, autolesionismo, follia, è diventato Boy-Two. Diventato nel senso di voluto, ricordo esattamente la sera in cui mi sono detta: “deve succedere, stanotte”. Ricordo di lì a pochi giorni la nausea mattutina improvvisa ma al contempo ben nota, ricordo i primi giorni, l’acido folico nel flacone del super australiano, il test di gravidanza, l’euforia del Mister. Boy-Two è stato programmato e si è materializzato come l’implementazione di un algoritmo, precisa e inesorabile. E rassicurante. Molto rassicurante. Questa sensazione di sicurezza e potenza ha accompagnato tutta la gestazione, il parto (da manuale) e il primo anno di vita di Boy-Two: era bellissimo rendersi conto che sapevo quello che facevo. A differenza di 20 mesi prima, sapevo Tutto. Quello. Che. Facevo. Ed era tutto così meravigliosamente facile. Era come un riscatto: lo dovevo a me stessa per prima, ma anche a Boy-One, in un certo senso, come per liberarlo da un peso che non aveva scelto di portare, e non avrebbe dovuto. Lo dovevo a tutti noi.

Nel volo di ritorno da quel primo viaggio, in un momento in cui ho improvvisamente percepito che stavo per lasciare alle spalle estate, eucalipti, mango e didgeridoos, ricordo di essermi girata di scatto verso il Mister dicendo “e ora? Che facciamo?”, con una leggera puntina di panico che tornava a serpeggiare, nonostante la calma zen che, in questo caso come nel precedente, mi regalava la pancia abitata. “Andrà tutto benissimo.” disse il Mister, con la sua solita aria da dato di fatto.

“Andrà tutto benissimo.” Ecco, appunto.

Buona estate a tutti.

(foto credits @ Marcus Melendez )

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3 thoughts on “Un’estate a testa in giù.”

  1. Condivido in pieno la filosofia del viaggiatore che non vuol essere semplicemente turista, ma assaporare un luogo vivendolo a fondo e conoscendolo non nell’eccezione ma nella regola, diciamo. E mi interessa sapere tu come hai fatto a vivere l’Australia così. Grazie e complimenti!

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