Comprendere, rispettare e accogliere la diversità dei fratelli gemelli. Non una coppia, ma due bambini distinti.
“Due gemelli signora, e’ pronta?”.
Quando l’ostetrica me li ha messi davanti, prima uno e poi l’altro, ho avuto un attimo di smarrimento all’idea di quello che sarebbe stato il dopo.
Ero radiosa sì, felice di aver portato a termine questa gravidanza tumultuosa, ma anche preoccupata di come avrei potuto fronteggiare le difficoltà che avrei trovato sulla mia strada.
“Non si preoccupi, ne ha già uno in fondo!”, mi diceva qualcuno.
Appunto, era proprio questo che mi spaventava, l’idea che me ne fossero nati due in contemporanea da trattare in modo diverso a seconda delle loro peculiarità.
“E che sarà mai?”, osservava qualche mamma più navigata di me.
Già, che sarà mai? Ma io ero spaventata.
Li ho visti subito, erano diversi.
Diversi nella bocca, nei capelli, nel naso, nel modo di attaccarsi al seno, nella posizione in cui dormivano, nel pianto, nelle espressioni, negli occhi e nella forma delle mani.
Sin dal primo giorno di vita chiedevano uno sforzo a tutti per essere trattati come due bambini distinti, ognuno con le sue caratteristiche, non in serie, non come una coppia.
Non “i gemelli”, come spesso chiunque, me compresa, è solito chiamarli.
Le loro diversità in tutto hanno reso necessario da subito un approccio personalizzato con l’uno e con l’altro, esigenza divenuta col tempo ancora più stringente rispetto a quando sono nati.
Ora è una necessità, eppure confesso che dopo quasi sette anni ancora faccio un’enorme fatica.
Ho messo a fuoco che questa è per me la difficoltà maggiore, e lo è proprio con loro, questi due bambini nati lo stesso giorno, che si somigliano ma che caratterialmente sono lontani come il sole e la luna.
Uno è silenzioso, l’altro è esuberante, uno è riservato, l’altro un’esplosione, uno è solitario, l’altro ama i gruppi, uno è fisico e l’altro no, uno ama esibirsi, l’altro si nasconde.
Paradossalmente il fratello maggiore ha più punti in comune con entrambi di quanto invece ne abbiano tra loro.
Lo vedo, lo so, ma in concreto spesso me ne dimentico, tralascio le diversità e pretendo che rispondano allo stesso modo alle sollecitazioni, ai richiami, alle esperienze che si trovano ad affrontare.
E puntualmente sbaglio, mi incarto, rimango spiazzata.
La reazione di uno non è mai quella dell’altro, e ancora me ne sorprendo.
Uno in salita guarda in alto e punta alla meta, l’altro si sdraia per terra e sbatte i piedi e la fine della strada neanche la vede.
Una l’ho prevista e l’altra no.
Alzo le braccia.
Li aiuto a salire nello stesso modo, e mi accorgo che non funziona.
Uno prosegue, l’altro continua a sbattere i piedi.
Mi vengono in mente le parole di un’amica, spesso mi aiutano. Ci sa fare, è il suo lavoro ed è in grado di farlo con una luce diversa negli occhi, una dedizione che ho visto a poche persone nella mia vita. Scrive così: “Sono un’insegnante e lavoro con i bambini. Con loro ho imparato una cosa: che i risultati migliori si ottengono quando ognuno fa le cose per come ne è capace“.
Proprio lì’ sta il punto, sembra facile ma non lo è affatto.
E’ una frase disarmante nella sua semplicità, eppure metterla in pratica spesso è tremendamente difficile.
La leggo e la rileggo milioni di volte: come si fa a svincolarsi da un’idea astratta per comprendere meglio chi abbiamo di fronte?
Quel bambino, solo lui, quello che sbatte i piedi perché proprio non ce la fa a camminare senza sosta come suo fratello, che ormai è quasi arrivato.
Mi guardo intorno, provo a cercare qualcosa.
“… quando ognuno fa le cose per come ne è capace…”.
E’ un sognatore, questo bambino. Ama le favole e i racconti, ama i disegni colorati, i re e le regine, le nuvole come batuffoli di cotone nel cielo, il suo pupazzo come un amico immaginario.
Ha bisogno di un contorno, di una storia, semplicemente non riesce ad andare dritto quando vede il freddo della fatica, si spaventa perché non riesce a ricamarci intorno niente.
Vede la salita, solo quella, e la difficoltà che sta in mezzo per raggiungere il traguardo.
“… per come ne è capace…”.
Guardo meglio, vedo ciò che un minuto prima mi era sfuggito.
Vedo un fiore sul cammino, un fiore bianco, glielo porgo, gli dico che l’ha lasciato la principessa di un castello vicino, e l’ha lasciato per lui. Lo aspetta lassù, alla fine della salita, ci sono altri fiori e un arcobaleno, ma per vedere tutto questo bisogna salire.
Alza la testa come se gli avessi aperto il mondo, mi guarda con i suoi occhi neri e profondi, sta in silenzio e smette di sbattere i piedi.
Prende il fiore dalle mie mani rimanendo fermo e zitto, e senza badare al gemello ormai lontano, con un’aria curiosa e sospesa prosegue lentamente a camminare.
E’ bellissimo ciò che scrivi, e il tuo sforzo per cercare di capire, e rispettare, l’essenza intrinseca di ciascuno dei tuoi figli.
Capita anche a me di restare spiazzata dalla diversità di approcci, di risposte emotive e comportamentali alle sollecitazioni della vita che hanno le mie figlie.
Solo che loro non sono gemelle, e questo indubbiamente aiuta, perché hai qualche anno di respiro per lasciar sedimentare le emozioni e i pensieri prima di affrontare di nuovo e con spirito differente situazioni magari analoghe, ma distanti.
Guardare sempre la salita e la fatica da affrontare per arrivare al traguardo: è una caratteristica del mio Chri. Il suo gemello, invece, esegue, senza lagne. Quanto mi è pesato questo suo atteggiamento. Oggi lo accetto con meno ansia, come un suo modo di essere, per certi versi anche simile al mio.
Bello questo tuo post, come sempre. Fa riflettere. Proverò a leggere le cose in una chiave diversa, e a offrire anch’io un fiore bianco…