“…llllà!!”
Pone la teglia con la parmigiana a centro tavola, e si lecca il pollice soddisfatto. Gli era venuta proprio bene stavolta.
Gli era sempre piaciuto molto cucinare, i primi tempi del dottorato custodiva il momento della cucina serale come una valvola di sicurezza. Nel suo appartamentino da solo, col sottofondo delle BBC News, serviva a scandire il tempo, a percepire un ordine nelle giornate, una conclusione ben delineata, una bed time routine applicata agli adulti insomma. Ultimamente poi aveva raffinato sia la tecnica sia la creatività. Non capitava raramente che passasse dal supermercato all’uscita dall’ufficio con in mente un piano preciso di acquisti per una ricetta che aveva cercato online, magari con una combinazione inusitata di spezie, o con verdure mai assaggiate prima. O il suggerimento di un collega expat, come lui.
Ma la parmigiana è la parmigiana, e fare la parmigiana richiede pazienza e dedizione. E richiede un avvenimento da celebrare, non ci si gioca la carta parmigiana così, con leggerezza. Da celebrare o da dimenticare. Tipo, la mezza litigata in ufficio di oggi.
E quindi, parmigiana sia: si torna a casa presto, ci si organizza in cucina con il laptop sbilenco sul piano, un occhio a Facebook, un occhio alle notizie, il blip delle e-mail di tanto in tanto che va assecondato, e si va di pastella. Ché se dev’essere parmigiana, dev’essere quella lussuriosa, con le melanzane fritte in pastella una per una prima dell’infornata, non la versione moscia, dritta dritta in forno, che sarà pure healthy ma, boh, a che pro, che razza di comfort food sarebbe.
Gli è venuta da dio stavolta, ecco. Si ferma e fa un passo indietro, la contempla in un momento di auto compiacimento. Possiamo dire che sia la migliore di sempre? Probabilmente sì. E diciamolo dunque.
Gli piacerebbe a proposito ricordare quand’è che l’ha fatta la prima volta, è sempre stato particolarmente puntiglioso con la cronologia. Con tutto in verità, ma con la cronologia di eventi in particolare, la prima-volta-che, l’ultima-volta-che, quante-volte. Aggrotta la fronte nello sforzo mnemonico, ma non gli riesce di far mente locale. Vabè, ci pensiamo poi, tempo di inaugurare questa sontuosità.
“A tavolaa!!”
Nessuna reazione.
Si avvia di là, sta per ripetere l’invito, ma si ferma sulla porta.
Giocano alla scuola. Il grande, quattro e mezzo, dirige con autorità. Il piccolo, tre, segue con competenza e sicurezza, agitando i riccioli biondi. Sa tutto della scuola, senza averla mai provata. A tre anni vive di riflesso tutto quanto vive suo fratello. Che buffi che sono. Peccato interrompere, ma sono già le sette, siamo in netto ritardo sulla tabella di marcia.
“La cena è pronta boys, a tavola!”
“Dinner is ready!” esclama il grande, lasciando cadere il libro che aveva in mano, davanti a questa notizia qualsiasi altro evento perde di rilevanza.
“Yeaaah” trotterella il piccolo.
“What’s for dinner?”
“Parmigiana!”
“Yeaaaaahhhh!” ripetono all’unisono e sprofondano nei piatti.
“Really really nice daddy!” le labbra rosse di sugo di pomodoro.
“Grazie! Ma attento con quella forchetta, eh?”
Oh, buona è buona. Che stava pensando prima a proposito di quando gli è venuta così bene la prima volta? Questa sensazione di non riuscire ad afferrare un filo… uff.
“Allora, che hai fatto all’asilo oggi?”
“It’s not asilo, daddy, it’s preeee-schoooool!”
“Si, certo, certo, che hai fatto a preschool oggi?”
“ehm ehm… drawing!”
Sorride, la risposta è sempre la stessa, niente da fare, a tre anni la memoria si azzera all’istante.
“E tu invece?”
“Nothing.”
E anche questa risposta è sempre la stessa. Per forza, la domanda è mal posta, che chiedi ad un quattrenne una cosa così generica come “che hai fatto oggi”, devi andare sul preciso. C’era Miss T.? C’era il tuo amico D.? Avete giocato fuori? Che c’era per pranzo? Avete fatto numeracy? Se vuoi risposte precise, devi porre domande precise, daddy, dovresti saperlo.
La cena scorre via leggera, con scarpetta finale, come è consono.
“Ora fatemi lavare i piatti, boys, OK? Voi giocate un pochetto poi andiamo a nanna.”
“Oooow-kaaay”
Riempie l’acquaio, infila i guanti di gomma. Ha sempre voluto lavarli i piatti, la lavastoviglie non gli piace. Un po’ la fissa recente sull’ecologia, ma anche perché lo rilassa in fondo, l’acqua bollente, la spugnetta, lo sciacquo.
La coppa dove ha sbattuto le uova per la pastella va alla fine, lo sa bene, con sciacquo in acqua fredda, così non rimane l’odore di uovo crudo. Qualcuno gliel’ha detta questa cosa. O forse l’ha letta su internet, chissà.
Una volta finito, si richiamano le truppe per il letto. Dentini, crema per la dermatite, la solita routine dello “spalma-spalma-spalma” (“ppamma-ppamma-ppamma”), pigiamini, bacetti e coccole, le manine che tastano il suo naso, i capelli, le sopracciglia, quelle guance morbide che ci stanno tutte ancora in un palmo di mano.
“OK, allora boys, che storia leggiamo stasera?”
“Biancaneve!!!”
“Di nuovo?? Va bene, va bene…”
Con tutte le volte che l’ha letta, può andare in pilota automatico, sfogliare le pagine e intanto pensare a cosa gli resta da fare in serata, a cosa preparare per colazione domani, a se andare in ufficio, o magari lavorare da casa chissene. Si legge in automatico, ma bisogna stare mooolto attenti a non sbagliare i passaggi giusti, certe cose bisogna dirle “per bene”.
“«…chi è la più bella del reame?» Disse la Regina. «In una casetta, sui monti lontani, c’è Biancaneve, coi sette nani!» Rispose lo specchio.”
Un coro di tre voci intona “Noooooooo Biancaneve noooooooo!”. La Regina dice così, anche se non è scritto sul libro. E tocca fare la scena, portandosi le mani fra i capelli in segno di disperazione. Questo libro si legge così, basta. Da sempre. Cioè, da sempre… da quando esattamente? Com’è stato che si è instaurata questa tradizione? Di nuovo questa sensazione di profondo fastidio per qualcosa che dovrebbe sapere.
La storia finisce, il libro chiuso torna sulla mensola, lui si siede a gambe incrociate sul pavimento e li guarda scivolare nel sonno.
Ma il grande apre mezzo occhio.
“Daddy…”
“Dimmi.”
“Did you come to see me last night?”
“No, non sono venuto da te l’altra notte.”
“But I saw you!”
“Stavi sognando forse, ora mettiti buono e cerca di dormire però.”
Si alza, fa per uscire dalla cameretta, ma ci ripensa, si gira:
“E tu, tu sei venuto da me stanotte?”
“No, I didn’t daddy… it was a dream.”
Lo guarda, gli occhietti pesantissimi non riescono a stare aperti, esce, socchiude piano la porta e scende le scale. Si avvia in cucina, mette su il bollitore per l’acqua. Come tutte le sere: bimbi a letto, caffè liofilizzato, biscottino, e si lavora un altro pochetto. La sicurezza della routine, la serenità di un’altra giornata piena trascorsa.
Mentre aspetta il fischio del bollitore, ci ripensa. La parmigiana, Biancaneve. Questa sensazione che ci sia qualcosa che non riesce ad acciuffare, un pensiero che non riesce a fermare, come quando ci si sveglia e ci si ricorda di avere sognato, ma non ci si ricorda cosa. E non è soltanto il non ricordare, e già quello lo fa sentire a disagio, ma la sensazione che il ricordare sia una cosa importante, ecco, questo lo destabilizza.
E poi, questa notte. Avrebbe giurato di aver sentito il grande venire nel lettone. E non era la prima volta che gli capitava. Questa specie di calore dentro. Come adesso, ecco, proprio come adesso, questa sensazione di tepore qui, in mezzo al petto. C’è qualcosa, c’è decisamente qualcosa. Ma non sa cosa.
Lei lo sa, invece.
Sta lì, immobile, con la fronte appoggiata alla sua schiena, la sua bellissima schiena. Segue le sue mani preparare il caffè, le sue bellissime mani.
Si scuote, si allontana, lo lascia in cucina e sale le scale. Va a guardarli dormire, a tuffare il naso nei riccioli, a sfiorare le manine morbide e paffute. Come ogni sera.
“È una trappola!”, diceva. Come si fa a vivere così, con questa paura di sbagliare tutto, di essere una pessima madre, di rovinarli per sempre? Poco importa se lui la abbracciava sorridendo: ma non ti preoccupare, amore mio, loro sono meravigliosi, noi siamo meravigliosi, e stiamo facendo le cose come sentiamo di farle, e secondo me stiamo andando bene, alla grande stiamo andando, devi essere meno dura con te stessa.
Annuiva senza convinzione e si arrotolava sul divano mentre li osservava giocare, i piccoli che ridevano a crepapelle, lui che faceva le smorfie con quegli occhi ricci e gentili. Quanto avrebbe voluto anche lei una frazione di tutta quella leggerezza.
E invece era in trappola.
Non posso restare. Non posso andarmene. In entrambi i casi, li farò soffrire indicibilmente.
Se solo potessi sparire. Non andarmene, sparire. Dileguarmi. Nessuno deve accorgersene, soffrire la mia mancanza, neanche ricordarmi. Come non fossi mai esistita.
Just disappear
(foto credits @ Greg Neate)
:’-)
@supermambanana
si, hai ragione, per ognuno c’é un finale. Dobbiamo sforzarci di deciderlo, costruirlo… sarebbe facile che tutto dipendesse da noi, ma siamo fili intrecciati.
Grazie per le tue parole… gli atti di affetto sono quelli che a me, personalmente, aiutano ad alzare la testa, e raddrizzare la schiena, e pensare che, sì, ho ancora forza per essere felice.
E un’altra volta devo far scivolare le lacrime all’indietro! (sono diverse pero`! grazie!)
ma che buone che siete 🙂
@laura, perché non proviamo insieme ad immaginare un finale diverso? Perché in realtà, il finale È diverso 😉 un abbraccio
Che bello, e mi ha fatto pensare tanto a quel bellissimo film The eternal sunshine of a spotless mind…
Mi sono commossa…e meno male che in questo periodo sto iniziando a dormire e quindi sono un po’ meno isterica, altrimenti potevo scoppiare a piangere alla scrivania.
Non vale!
mi sforzo di non far scivolare le lacrime, perché sto leggendo di straforo, in ufficio.
mi vedo, come in uno schizzo fatto a mano, dalla bic di un artista, e il mio cuore implode in silenzio…
meraviglia!
Mi state letteralmente deliziando con questi racconti, vi adoro!!
Pero’…Noooooooooo fatela riapparire questa povera donna: forte, intelligente e bella.
Amata e benvoluta.
Servita e riverita.
Se lo merita!
Ma sarà che questo racconto va a toccare delle corde nascoste molto, molto bene, in fondo da qualche parte, che si fa fatica a farle vibrare ogni tanto…
Tra Ghost e Frank Capra, c’è Supemambanana.
Questo racconto mi ha lasciata a bocca aperta! Geniale, dolce, malinconico….
😀
noooo…non potete ladsciarci così…ancora un pochino..
Un racconto che alla fine… quando i lettori fanno oooooooooooooh! Che meraviglia che meraviglia!