Cerco “How to be happy” su Google e ottengo 3.130.000.000 risultati. Tre miliardi di risultati sulla ricerca della felicità, direi proprio che è diventata un’ossessione.
Sfoglio svogliatamente Instagram prima di addormentarmi. Volti felici mi sorridono dallo schermo illuminato del mio cellulare. Vite felici, piene di dettagli felici, tazze fumanti di tisane felici che scaldano il cuore solo a guardarle, gente che vive in ambienti da copertina felici, l’intero Instagram sprizza felicità da ogni immagine.
Con hashtag #happy ci sono, attualmente, 414.049.387 post su instagram, senza contare tutte le variazioni: #happyday #veryhappy e #happytime.
Certo, è anche normale che si scattino molte più foto in momenti positivi, che in quelli negativi: se sono attanagliato da un pensiero preoccupante, o se mi sento particolarmente giù, non ho certo voglia di estrarre di tasca lo smarphone e scattarmi o scattare ad altri una bella foto. Però non vi sembra un po’ sovrabbondante tutta questa felicità? E, soprattutto, è proprio così necessaria?
I messaggi che ci incitano a essere felici sono costanti:
Be happy!
Sii felice!
Fai ciò che ti rende felice!
Ho anche scoperto, con una certa perplessità, che dal 2017 è stata istituita una “Giornata internazionale della felicità”, che ricorre il 20 marzo e che l’Assemblea dell’ONU ha individuato in “un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone“.
C’è poi la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti che stabilisce: “a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità“, ma credo che questa formulazione abbia creato più danni culturali che altro (sono di certo fuorviata dall’opinione di Umberto Eco e preferisco di gran lunga la nostra Costituzione che chiede di rimuovere gli ostacoli all’uguaglianza).
Insomma, vogliamo essere felici a livello personale e collettivo, perché è meglio essere felici tra gente felice, per non sentirsi in colpa, e così vogliamo che i nostri cari siano felici. Ai nostri figli auguriamo di avere una vita felice, e facciamo tutto quello che è in nostro potere per renderli felici o per spianare la loro strada verso la felicità. Vogliamo figli felici un po’ a tutti i costi, quasi fossimo terrorizzati dal mandare in giro per il mondo, là fuori, un figlio infelice, depresso, malinconico, ombroso, perché potrebbe dare l’idea che non siamo dei buoni genitori. E così facilitiamo, ci sostituiamo nei compiti frustranti, li solleviamo. O peggio, pretendiamo la loro felicità: perché non sono felici se gli abbiamo dato tutto, sia materialmente che moralmente? Hanno il dovere di essere felici!
E se questa ricerca della felicità fosse il male del nostro secolo? Fosse proprio quell’aspetto che ci tiene in pugno rendendoci perennemente insoddisfatti?
La felicità non è una condizione costante, facciamocene una ragione. La felicità, poi, non è una situazione semplice e lineare, ma è complessa.
Certo, la ricerca della felicità è anche un motore che muove le nostre azioni e le nostre scelte: formiamo una famiglia con una persona perché siamo certi che in quella unione risieda la nostra felicità futura. Studiamo e ci impegniamo in un determinato lavoro perché siamo certi che quella attività ci renderà felici. Facciamo sforzi, cerchiamo di stare vicini alle persone a cui teniamo, creiamo opere e sviluppiamo idee, perché sono attività che ci rendono felici.
Cosa è la felicità? Cosa significa essere felice per me? Posso credere che il mio modo di essere felice valga per tutti?
E cosa significa rendere i figli felici? Posso fare qualcosa perché loro siano felici ora e nella loro vita futura? Quale è, se esiste, la ricetta della felicità da imparare e tramandare ai figli?
C’è una definizione di felicità che amo molto e ve la lascio qui, come punto di partenza. Non è una definizione nata da un uomo ottimista, tutt’altro, di certo è la definizione data da un uomo che non si sarebbe mai definito felice, per il suo carattere tanto ombroso da essere oscuro. Però, forse, per questo la trovo preziosa.
Forse vi sono momentini minuscolini di felicità,
e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte.
La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza.Antonio de Curtis – Totò
(la “signorina mia” a cui si riferisce De Curtis è Oriana Fallaci, che lo stava intervistando. Il testo integrale, che parla anche di felicità, merita di essere letto)
Andiamo alla ricerca dei nostri momentini minuscolini.
Grandissima, Silvia!
Proprio ieri una persona che stimo molto e che ha molto il polso dei nostri tempi mi diceva che quest’ossessione della felicità, secondo lui, è stata la rovina degli ultimi 20 anni.
Più che che cercare sta benedetta, celeste, felicità dovremmo orientarci su una più terrena soddisfazione.