Chiariamo subito un importante concetto: col tempo le cose migliorano.
Dovete credermi sulla parola, mamme e papà alle prese con svezzamenti o notti insonni o terrible two. Segnatevi bene queste parole: col tempo le cose migliorano. Non sono 100% sicura che sia perché i problemi diventano di meno, ma questo al momento non ci deve riguardare. Come mi confidava un’amica, mamma di figli adolescenti, quando sono piccoli e li metti a letto (OK, e si addormentano, bisognerebbe aggiungere, particolare non irrilevante) hai l’opportunità di provare quel momento preziosissimo, quasi euforico di “ooohh, finito, tutto è a posto” che qualche anno dopo potrai scordare per sempre (le mamme degli adolescenti sono terroristiche verso le mamme dei piccoletti quasi quanto le già mamme lo sono verso le mamme che lo diventeranno presto). Diciamo allora che, se le cose migliorano, una spiegazione attendibile può esser che noi siamo migliorati, noi affrontiamo meglio le cose, noi “pensiamo di meno” – eh, Silvietta? 😛
Quando le cose migliorano (i miei boys hanno al momento 7 anni e mezzo e 5 anni e tre quarti – no perché le frazioni di anno sono importantissime a questa età) ti trovi a volte a guardare indietro, a sorridere di certe paturnie, ad imbarazzarti di certe schizofrenie, e tutto ciò contribuisce a quel senso di superiorità che le mamme più avanti nella mammitudine a volte proprio non riescono a celare, vestendo i panni, spesso loro malgrado, del DCNR.
Ma ciò non toglie che i primi periodi siano periodi oscuri — arcani e incomprensibili pensieri li popolano, plumbee visioni sembrano sempre in agguato, che nel febbricitante marasma in cui sensazioni e verità sembrano non avere una linea netta di separazione, causano non poche inquietudini. Vi faccio un esempio.
Per andare in ufficio, devo prendere un bus, come raccontavo qui. Per la precisione ne devo prendere due. Uno che mi porta da casa a Queen Square, uno dei capolinea delle linee di bus. L’altro che da Queen Square mi porta in ufficio. Ça va sans dire, quando torno a casa a fine giornata, devo fare esattamente lo stesso percorso, a ritroso.
Ora per molto tempo, nei primi anni di vita dei boys, Queen Square ha assunto il ruolo per me di luogo quasi mitologico, tipo Utopia, o Shangri-La, o El-Dorado, e al contempo un luogo che era un passaggio, le colonne d’Ercole da attraversare per transitare dalla vita alfa, nota e rassicurante, alla vita beta, incognita e perigliosa, dalla vita dove io sono “supermambanana, hai letto la mia mail di ieri?” alla vita dove io sono “maaammaaaaa!!!!”.
È spesso (sempre?) stato difficile attraversare Queen Square per me, era diventata un rito di passaggio appunto, solo che si ripeteva quotidiano.
Vi descrivo gli eventi. Si parte dal mio ufficio, a fine giornata: un ultimo sguardo alle mail, raccogli le cose da leggere a casa se avanzano dieci minuti (pia illusione, ma pazienza), ci si scapicolla alla fermata per prendere il primo bus.
Si riflette, sul bus, sulla giornata passata, sulle cose fatte, quelle non fatte, quelle da fare, le persone viste.
Si arriva a Queen Square, si scende.
Ora, la prima cosa che mi sorprende sempre una volta scesa a Queen Square verso quell’ora è il profumo di ciambelle. Se faccio mente locale, lo so che c’è, ma al momento, quando scendo dal bus, mi stupisce sempre. Proviene da un chioschetto che si sistema sul lato sud della piazza, e che le vende insieme ai gelati. Ecco, forse è questa la scaturigine di tutto ciò che segue, questo odore di fiera di quando ero piccola, di giochi e di passeggiate. L’odore mi mette malinconia, non perché voglia tornare indietro, anzi! Ma perché mi dà di cose mancate, di cose che non possono succedere.
Il profumo mi costringe sempre a notare il chioschetto, e quindi scorgo alle spalle il centro commerciale, la gente indaffarata per l’ultima spesa della sera, i ragazzi in gruppi a chiacchierare, o a fare acrobazie sugli skates, il Royal Court Theatre, con le sue locandine farsesche, e con un SuperLambanana che svetta sull’ingresso, beffardo.
Ma non posso fermarmi, devo attraversare, il mio bus numero due si ferma in una parallela della piazza, devo scappare.
Taglio attraverso la parte pedonale. Piena di ristoranti e caffé. Gente seduta, chiacchiera, ride. Burger King prima, poi a sinistra il ristorante Italiano, a destra le Tapas. Se il tempo accompagna, tavolini fuori.
Ho fantasticato tante volte, ora mi fermo. Non torno a casa stasera. Mi fermo e mi siedo. Ordino una frittura di calamari. Non mi importa di socializzare, non è quello, ma mi faccio dilatare il tempo a piacere, stravacco la testa, non ci sono “altre” cose da fare “dopo”, non ci sta nessun “altro” e nessun “dopo”, la mia vita non ha spartitraffico, e soprattutto io sono io, io sono una, coerente con me stessa, sempre.
Non che sia mai arrivata al punto di farlo veramente, ma questo non rendeva meno pesante, quasi una da dover prendere consciamente, la decisione di proseguire, arrivare alla fine di Queen Square, attraversare di nuovo. Il pensiero dei piccoletti a casa per un momento diventa non sinonimo di un fine giornata con sessione di bacetti e coccole, ma l’epitome di tutto quello che non può succedere, e questo mi indispettiva, non perché mi mancasse un pezzo di vita, che tanto non ce l’avevo neanche prima questa inclinazione mondana, ma perché mi pareva di fare un torto a me stessa, prima e più che ai bambini, a indulgere nell’autocommiserazione.
Mi dico che non ci devo pensare, che una volta al sicuro sul bus numero due, quello che attraversa paesaggi sempre più familiari e domestici, la lente cambierà di nuovo, si rifocalizzerà sull’obiettivo consueto, non ci pensare supermambanana, cammina.
Ma non posso fare a meno di notare che, mia povera supermambanana, l’ultima cosa cui devi passare davanti, alla fine di Queen Square, prima di attraversare per prendere il bus che ti porta a casa, è questa qui.
E voi, ce l’avete una Queen Square?
La mia Queen square è il mio caffé!!!! Ho l’abitudine di prenderlo anche al rientro a casa, e quando ancora lavoravo a tempo pieno e rientravo alle 18,45, non potevo prenderlo prima di mangiare, arrivavo di corsa, facevo da mangiare di corsa, mangiavo di corsissima e poi … ahhhhhhh… chiusa in lavanderia col caffé e la sigaretta mentre i due grandi di là sparecchiavano e si occupavano di elia quei cinque minuti prima che lo riprendessi per metterlo a letto… è un abbraccio, una coccola che mi faccio.. e se non potessi berlo mi sentirei veramente male!
@Daniela, bellissimo l’ascensore, e il tuo lasciarti andare contro la parete con un sospiro 🙂 che bello questo film che sta venendo fuori, un montaggio di scene di vita
La mia è piccina picciò… L’ascensore dell’asilo. La mattina a casa mia inizia alle 6,15, arrivo all’asilo alle 8, qualche volta un po’ dopo, lascio la grande dopo aver già parcheggiato la piccola, bacio, coccole, risalgo sull’ascensore e… Sono pochi, pochissimi secondi, ma ogni mattina mi appoggio alla parete e sospiro. E’ finito il primo round, da quel momento i tempi sono più calmi, più adulti, ho finito di essere mamma, si va al lavoro, o a fare commissioni, si sceglie, senza urla, senza niente, in quel sospiro mi svuoto.
Poi lo riprendo, all’una o un po’ prima. Con l’impazienza di rivederle. Confesso che l’idea di non salirci non è stata molto frequente, è un sollievo ogni mattina quando le lascio, una pausa, ma poi la voglia di tornare c’è sempre stata ogni giorno. Da lì ogni mattina inizio a pensare alla lista delle cose che devo/voglio fare, da lì ogni giorno penso a come ritroverò mia figlia, e insieme alle cose che farò nell’altra parte di giornata, sono pochi secondi ma in quei pochi secondi cambio ruolo ogni giorno!
@LGO anche a te le metafore non mancano eh? 🙂
@mammadicorsa per non parlare delle tue di metafore, la mattina si scende freschi e pimpanti, e al ritorno la salitona – io non so se sono in cima, sono probabilmente su un altopiano al momento, percepisco un momento di calma, ma temo sia soltanto un riprendere il fiato.
La mia Queen Square è una salita (con pendenza altissima) che percorro a piedi dal centro della città al parcheggio dove lascio la macchina (per chi conosce Urbino: via Raffaello). Ebbene la percorro la mattina alle 9 in discesa e alle 13 in salita e davvero quella via è carica di pensieri, di idee, di gioie e di dolori. Ma pensandoci bene, grazie al tuo post, quella salita per me rappresenta la fatica che ho fatto per diventare quello che sono. Arrivare in cima è la ricompensa per i dolori sopportati e le delusioni digerite. Superata la salita divento mamma e nonostante la difficoltà che ciò comporta, solo così mi sento davvero me stessa e pienamente realizzata.
Io non ho un posto, ma una serie di gesti, quelli che servono a togliere la catena che lega il motorino. Perché loro non ci salgono quasi mai, e io ogni volta mi illudo che potrei sempre decidere di andare altrove 😉
@francesca, da pugliese a pugliese, si’ capisco perfettamente che tipo di sentimenti possa infondere una spianata di ulivi….
certo che ce l’ho la mia Queen Square! non è bella e mondana come la tua, ma ha lo stesso significato di passaggio, di limbo…è la strada che da Brindisi (dove lavoro) porta a Lecce (dove vivo), non c’è odore di ciambelle ma ci sono tanti tanti ulivi che accompagnano i miei pensieri, che più o meno dono simili ai tuoi.
(però pensandoci un superlambanana ci starebbe bene ai margini della strada 😉
@Claudia, dammi il cinque 😀
Visto? Tu sei libera di andartene a casa tua, e quell’altra resta imprigionata a Queen Square, a sniffare ciambelle e sorbirsi vita mondana indesiderata. Life is good! 😀