Mini-corso di autostima per genitori: 1 – Quello che so fare bene

Abbiamo identificato quattro “cardini dell’autostima” e abbiamo pensato di costruirci sopra dei dialoghi che possano rappresentare degli spunti di riflessione. Due di noi converseranno sul tema della “lezione d’autostima” per proporlo dal loro punto di vista.
Lorenzo Gasparrini e Mammamsterdam parlano dell’origine della loro autostima: il primo argomento è “Quello che so fare bene“. Iniziamo a pensare a noi stessi facendo leva sui nostri punti di forza, per arrivare alla conclusione che proprio quei punti di forza ci rendono dei genitori sufficientemente buoni. E da lì, ci si può sempre migliorare.

Lorenzo:
Ciao Barbara, abbiamo deciso che la nostra prima puntata sarà su “quello che so fare bene”. In che senso?

Barbara – Mammamsterdam:
Basta farsi una piccola lista di cose che ti sono venute bene. Intanto sei sopravvissuto alla maggiore età, sei persino riuscito a riprodurti e i tuoi figli, pare, sono ancora vivi, quindi troppe stronzate non devi proprio essere capace di farle. A me sembra già un gran successo per la mia autostima di genitore. E che te ne importa se non sai perché è andato tutto bene.

Fatta questa premessa vediamo come aggiustare il tiro, visto che tutto nella vita è perfettibile. Qual è il nostro stato minimo di felicità? Di cosa ci accontentiamo nella vita? E partendo quindi da lì, cosa possiamo fare per aspirare a qualcosa di meglio senza diventarne schiavi? Per me già dire che l’importante è la salute e che siamo tutti felici insieme è un grosso successo.

L:
Tutto giusto, ma dipende pure dalla situazione di partenza. Nel mio caso, ad esempio, vista la famiglia che ho avuto e che mi ha cresciuto, indubbiamente fare due figli con la stessa compagna – e rimanerci – è già un grosso risultato. Poi ho veramente esagerato nel versante “istruzione”: i miei genitori non hanno finito la scuola dell’obbligo, e io ho un dottorato in filosofia.
Rimane però un problema: se nella tua vita quotidiana questi traguardi non hanno un significato, ecco che nei confronti dell’autostima non servono a nulla – e torna il caso del mio titolo di studio, che attualmente non mi serve a nulla.
Quindi, se penso a “quello che so fare bene”, la risposta che più conta per la mia autostima è: ascolto tutti e parlo con tutti, e invito continuamente tutti a farlo. Per ora è la “qualità” che mi ha dato più soddisfazione. Ma contano queste cose nell’autostima? A sentire tanti discorsi, pare di no.

B:
Allora ripartiamo dall’aspetto ‘auto’ dell’autostima. Tu hai ragione quando dici che la situazione di partenza fa tanto e che certi traguardi se nel quotidiano non hanno significato, forse ti dici: machissenefrega se ho un dottorato in filosofia.
Però a te, di te stesso, cosa ti piace? Hai mai avuto delle certezze, talmente certe che diventano scontate, e talmente scontate che manco te ne accorgi? O lo sai, ma non ne vedi l’utilità?

Faccio un esempio, io per via dell’ educazione taleban-cattolica della matriarche del mio clan, sono cresciuta fingendo di non avere un corpo, che ho scoperto di avere solo quando sono rimasta incinta e ho partorito (già questa scoperta è stata un gran regalo dei figli per la mia autostima).
Un altro grande favore me l’ha fatto la mia amica-sorella maggiore Silvia, che ha sempre parlato del parto come del culmine di trionfo creativo che puoi raggiungere nella vita. Prima non c’era niente e poi tu, per mezzo del tuo corpo, e questo vale anche per i padri, crei dal nulla quello che diventa un bambino. Un nuovo essere umano con tutte le sue infinite potenzialità, e l’abbiamo fatto proprio noi, che siamo una coppia qualsiasi. Guarda che se ci pensi fai subito a sentirti dio, anche se poi il neonato indifeso rischia di distruggerti questa consapevolezza alla prima colica.

Ma lasciamo un attimo il delirio creazionista e andiamo su una cosa terra terra. Io sulla mia autostima ho sempre avuto questo sentimento di doppiezza: da un lato ero sicura di quello che ero e quello che sapevo e quello che pensavo, dall’altro enormemente insicura di come lo accoglievano gli altri. Al liceo mi sono accorta che molti miei compagni invece preferivano imparare cosa aveva detto Croce di Manzoni piuttosto che chiedersi cosa ne pensavano loro.

Da adolescente ero racchia, me lo dicevano tutti e anche se sulla carta ero alta, magra, bionda e con le tette (che ho ignorato fino al momento di allattare) mi vergognavo talmente di avere un corpo, che non me ne facevo nulla. Tranne le gambe, ero felicissima delle mie gambe.

Ma torniamo al dunque: metti che non sei dottore in filosofia, hai il culo basso e la cellulite e sei pure supponente e antipatico. O ti spari, o quando hai cinque minuti di calma prova a pensare cosa ti piace di te. E tu l’hai detto molto bene cosa conta per te.
Come ci sei arrivato a capirlo? Quando ascolti qualcuno, quando parli con qualcuno, sei più felice di quando non lo fai? Senti le bollicine effervescenti nella pancia (o altrove, fai tu?) Per me sai cosa è stato liberatorio? Leggermi La bruttina stagionata di Carmen Covito.

[Io lo so perché mi piacevano le mie gambe: perché mio padre aveva un fratello che aveva una moglie che a sua volta aveva un fratello che aveva una moglie che aveva una sorella e un cognato, Gabriella e Pino. E Pino e Gabriella erano gli pseudozii giovani e simpatici, quelli senza figli, ma allegri, solari, incoraggianti, carucci, che facevano cose divertenti e andavano in campeggio in moto. E una volta sentii Gabriella dire che lei e Pino trovavano che avessi delle belle gambe e avevo quattordici anni ed è l’ età in cui i tuoi modelli di adulti te li cerchi lontano dai genitori ma vicino negli affetti. E Pino e Gabriella erano alla distanza ideale. Ed erano due, perché dioneliberi l’ avessi sentito dire solo a Pino, sarei scappata a mettermi un burka.]

O se preferisci una citazione più colta, eccotela: “Non so sciare, non so giocare a tennis, nuoto così così ma ho il senso della frase.” Lo dice Andrea G. Pinketts e se è felice lui del suo senso della frase capisci che ognuno di noi, in fondo al proprio cuore, se ci si concentra un pochino, ne trova di cose per cui stimarsi. Oh, stiamo parlando di stima, mica di amore folle, e ridimensioniamoci in questa ricerca di autostima.

L:
Dici: come ci sono arrivato a capire “cosa” è quello che mi convince, nella mia autostima? Ho avuto la fortuna di non smettere di cercare il sorriso degli altri.
[quote]
L’autostima ha questo di paradossale: è, sicuramente, la valutazione di sé che ciascuno si porta dentro, ma essa non può prescindere dal contatto con gli altri – che sia un feedback positivo o un totale rifiuto. Senza questo imprescindibile riscontro – positivo o negativo – l’autostima manco esiste. Quindi tu decidi “cosa” ne è l’indice, ma è la situazione personale/sociale a determinarne l’andamento, verso l’alto o verso il basso. Quello che è in ballo nell’autostima è la capacità di “esserci” nella propria stessa vita: in mezzo agli estremi – il presuntuoso egoista per cui il mondo è la continua conferma delle proprie convinzioni, e il depresso smembrato a caccia di qualunque consenso pur di avere un minimo di riscontro nell’universo esterno – c’è da trovare una strada che permetta sempre di essere in contatto con la propria esistenza e i propri affetti, senza difendersi fino all’indifferenza o sopravvalutarsi fino al cinismo. E mica è facile. O no?

B:
Si, in parte. Nel senso che sono d’accordo con te quando dici del paradosso del contatto con gli altri, sicuramente abbiamo bisogno di questo metro di confronto. Ma non sono d’accordo sul fatto che senza questo riscontro l’autostima non esista. Forse vivo in Olanda da troppo tempo per non aver assorbito un pochino della loro cultura della colpa e quindi penso che l’autostima sia fondamentalmente una cosa tutta tua, che te la tiri fuori tu, mentre l’ ambiente esterno fa solo da controllo.
Cioè, quando gli antropologi e specialisti affini distinguono tra una “cultura della vergogna“, come quella in cui siamo tanto bravi noi italiani cattolici, ovvero che tutto quello che fai deve superare il vaglio degli altri (e allora guai, se non hai le scarpe di quella marca, guai, se colto sul fatto non fai pubblica penitenza) e una “cultura della colpa“, tipica di tutte queste civiltà nordiche e protestanti, in cui il tuo peggior giudice sei te stesso, ecco, come la pongono la questione dell’autostima? Tu che sei estetologo e fine intellettuale hai un’idea in proposito?

L:
Interessante. Però non è in contrasto con quanto dicevo prima, in fondo è una condizione ambientale anche quella. Prendi per esempio l’essere diventato genitore: è chiaro che un’autostima la avevi anche prima, così com’è chiaro che dopo è cambiata. All’inizio l’autostima come genitore è peggio che zero: è nulla – dato che non hai alcuna esperienza precedente e hai il peso del “successo” dei tuoi – oppure è (irresponsabilmente) massima, tanto uno è tranquillo e sicuro che sarà un buon genitore, perché tutti alla fine lo sono ed è “una cosa naturale”.
Poi tuo figlio nasce davvero, e tutto si ricalibra sulla base di questa nuova esperienza. Quindi anche l’autostima si riposiziona più coscientemente in maniera diretta dall’esperienza. Ma anche qui torna, credo, l’inevitabile confronto con l’esterno – e con la propria storia di bambino.

Io sono cresciuto sostanzialmente senza padre, perciò anche solo vivere sotto lo stesso tetto con i miei figli è un “successo”. Ma se su questo baso la mia autostima, sarei un cretino. Devo confrontarmi con altri genitori e con ciò che ho vissuto da bambino, altrimenti sarebbe facile giudicarmi un ottimo padre. In realtà faccio anche io un sacco di errori come tutti i padri, e l’autostima la uso, per esempio, per darmi il tempo necessario ad assorbirli e comprenderli, senza cercare di “correre ai ripari” troppo velocemente sia per me stesso che per la mia famiglia.

Ecco che ‘questo’ aumenta la mia autostima. Vedere che, nel tempo, i miei figli crescono sempre più organicamente come un tutto, come persone complete. Si provano in tante cose, con i successi e gli insuccessi della loro età, hanno dei gusti propri, rispettano la volontà altrui, sono ostinati il giusto e pazienti per quanto è loro possibile. E glielo dico sempre – così alimento pure la loro autostima.
Che ne pensi? Tu come fai?

B:
Dopo la nascita di figlio 1, vuoi la depressione non diagnosticata, vuoi lo sfinimento, vuoi il pensiero che in quel momento ero l’unica in famiglia che guadagnava, mi sono messa in mano a una coach. Ero stravolta dai sensi di colpa, dalla paura di sbagliare, scoglionata dai buoni consigli della gente che tanto se non ti dicono quello che vuoi sentire non li manco segui, ma stressano e basta.

Però sono sempre stata ottimista che saremmo finiti bene. Non a caso il manuale che mi ha più confortata in quel periodo era Le madri hanno sempre ragione di Giovanni Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile in Italia.
Cioè, se proprio lui mi confermava la mia sicurezza di fondo, allora non ero io un pallone gonfiato, andava proprio bene così. In qualche modo lo disse anche la mia coach, che ero un’ottima madre, checché ne pensassi, perché era forse la prima cosa e il primo ruolo in vita mia che mi ero completamente costruita, suonata e cantata da sola.[quote1]

Quello che trovo illuminante in ciò che dici è che è vero, ognuno di noi diventa genitore senz’altro in base al proprio vissuto, alla gente che conosce, ma che è una cosa che non te la può fare nessun altro, te la fai da solo. Se non è un’ iniezione di autostima, questa, non so cosa sia. Il problema forse diventa dei miei figli: si ritrovano una madre ingombrante. Ma se la cavano benissimo.

Mia madre restò sconvolta la prima volta che, mentre gli faceva le coccole dicendogli: “Ma il chi è il bambino più bellissimo del mondo?” figlio 2 rispose con il nome del fratello. Non so se per motivi di ordine di nascita e fratello maggiore onnipresente e ingombrante anche lui, o per carattere, ma la nostra cura d’urto è stata quello di intronarlo il più possibile (e lo facciamo anche con l’altro) ripetendo “TU sei il bambino più fantastico del mondo”.

Poi abbiamo imparato tutti, noi genitori moderni, la storia della critica positiva al bambino, del separare la cosa negativa che ha fatto da quello che è, che ci piace. Speriamo non si scopra tra 20 anni che è il modo migliore per farli entrare in una setta. Ma la mia autostima di genitore mi impedisce di crederlo seriamente.

L:
Dàje così, allora. Alla prossima 🙂

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