Sono sicura che abbiate tutti sentito parlare di Marie Kondo e probabilmente letto il libro o sentito parlare delle note base del suo metodo di riordino e pulizia: analizzare gli oggetti presenti in casa per tipologia e non soltanto in base alle stanze, eliminarne un bel tot e soprattutto saper piegare bene le cose prima di disporle in verticale.
Almeno, questo quello che avevo capito io e che, ammetto, avevo messo da parte con una certa presupponenza: intendo dire, sono una persona piuttosto ordinata, ho svuotato gli armadi diverse volte nella mia vita, per traslochi, cambio di taglia, pulizie di primavera, per cui, in buona sostanza, dopo aver dato una lettura piuttosto distratta al “magico metodo del riordino” l’avevo messo tranquillamente da parte.
A dicembre, però, nelle feste di Natale, improvvisamente – nonostante il lavoro, i bimbi a casa, quell’ossimoro che sono i compiti delle vacanze a condizionare la nostra organizzazione giornaliera e settimanale, tutti gli altri progetti che ho scelto e che invadono la mia agenda di scadenze, doveri e appuntamenti – sono stata colta dal bisogno di rileggerlo.
Non voglia, desiderio o curiosità, ma proprio bisogno.
Non so se sia stato questo a condizionare la rilettura, o se le parole si siano decide a comparire solo adesso, ma ho letto, in sostanza, un libro totalmente diverso.
Certo, ci sono ancora i suggerimenti su come piegare, impilare, sostenere, ma stavolta mi è chiaro come il criterio fundamentale non sia tanto l’organizzazione, la pianificazione e neppure l’eliminazione degli oggetti quanto la capacità di osservarli come messaggeri, oltre che di una pragmatica funzionalità, di ricordi, evocationi, sensazioni di cui – consciamente o meno – accettiamo di circondarci.
Ecco allora che la domanda fundamentale non e’ piu’ tanto “dove lo metto?” Ma “lo voglio? Mi fa felice? Mi fa brillare gli occhi?”
Sono d’accordo che per proseguire il ragionamento dopo queste domande, il libro presenti e proponga atteggiamenti e modalità distanti dalla nostra sensibilità, forse anche un po’ esagerati nella loro posa quasi sacrale con cui interrogare gli oggetti e porsi in loro ascolto.
Ma al di là del metodo, cosi come tutti gli altri metodi che, in fin dei conti, non sono che suggerimenti che si possono accogliere o meno in piena libertà, quello che mi ha colpito, e che sto sperimentando, è la possibilità di scegliere la felicità anche partire dalle cose che decidiamo di metterci tutti i giorni davanti agli occhi. La tazzina per il caffé , fosse anche firmata, ma regalata dal nostro ex, trasmette davvero felicità o la tengo perchè mi faccio dovere di non sprecare, conservare e via anche perdonare quel passato, gestendomelo nell’anima? E quanto mi costano tutti questi doveri? Quando diventano alla fine un abito (mentale e non solo a questo punto) con cui ogni giorno mi dico e mi faccio dire persino dalle mie cose quanto io debba essere … parsimoniosa, onesta, razionale o, di contro, a seconda degli oggetti, ribelle, anticonformista, dura e pura ecc ecc ?
Mi piace allora pensare di aver letto non tanto un manuale su come organizzare gli spazi interni alla casa e riporre quanto si possiede quanto un utilissimo memento formativo: vivere non significa solo pretendere di avere diritto alla felicità ma anche riconoscersi la possibilità di cercarla, se necessario, lasciando indietro pesi che ci impediscono di poter essere, oggi, genuinamente felici, anche solo del fatto di bersi un caffé in una tazzina che oggi, per le mani che oggi abbiamo, ci fa dire: “grazie vita, che oggi sono viva”.
E, come spesso accade, vedere i figli fare non cio’ che dico, ma cio’ che faccio, e chiederci insieme: “ma noi, che casa vogliamo vivere? E per fare che cosa?” è la miglior risposta agli eventuali dubbi che possono scorgere. Noi, oggi, abbiamo bisogno di viaggiare più leggeri. Domani, chissà 🙂