A noi nati nei fab-60/70s ci hanno fregato i telefilm americani.
Avete presente quelle meravigliose sit-com, in cui si dipanavano i rapporti umani e sociali, quelle che ci hanno insegnato i fondamentali tipo il femminismo (Mary Tyler Moore, Rhoda, Alice, o Una Signora in Gamba, o Giorno per Giorno), la lotta di classe (Cin Cin/Cheers, o I ragazzi del Sabato Sera, o New York New York), le difficoltà delle differenze, l’omosessualità, l’immigrazione (I Jefferson, o la leggendaria Arcibaldo/All in the Family, la capostipite di tante, ma anche Mork e Mindy per dire) la disabilità e l’accettazione (L’albero delle mele) e quelli ad intersezione fra tutti questi temi e la genitorialità (Il mio amico Arnold o La famiglia Bradford/Otto Bastano, Casa Keaton e ancora I Jefferson e ancora Arcibaldo) e poi, e poi, e poi? E non vogliamo parlare di Star Trek?
E insomma noi, quelli dei pomeriggi eterni davanti alla TV, abbiamo consapevolmente o inconsapevolmente arricchito il nostro repertorio genitoriale ancora di là da venire con un bagaglio di bei discorsi, di chiacchierate genitori-figli, di esempi edificanti, di battute ad effetto, che si sono ripresentati alla bisogna, magari anche senza citazione, ché neanche ci ricordiamo da dove li stiamo tirando fuori, ormai cablati nel nostri circuiti cerebrali.
E ce li facciamo infatti questi bei discorsi, con i figli, disegniamo metafore, e architettiamo esempi. E finiamo con abbracci e baci e tazze di cioccolata, e serate davanti ad un bel film, e passeggiate. Ce li facciamo a letto la sera, parliamo dei grandi sistemi e dei piccoli, costruiamo pezzetti di futuro.
E certo, ci diciamo convintamente, fra di noi, quando la social-chat deriva inesorabilmente sull’argomento figli, ne abbiamo parlato, di sesso e di bullismo, di senso di colpa e di hybris, del valore dell’impegno e dell’appagamento ingannevole delle scorciatoie, e loro hanno capito, ci diciamo, hanno ascoltato con gli occhioni sgranati e hanno capito. Che bel momento di genitorialità abbiamo vissuto, che ripaga almeno in parte tutti quelli in cui ci incasiniamo con le nostre mani. Bravi bravi, un pat pat a noi.
Solo che una cosa non ci hanno detto i telefilm americani. Nel più classico dei “buona la prima”, i genitori dei telefilm non li riprendono mai ‘sti discorsoni importanti. La narrazione richiede che a nuovo episodio corrisponda una nuova situazione, e nuovi discorsi da aggiungere al repertorio, ma non si torna mai sui discorsi vecchi. E quindi ci rimaniamo male quando, a valle, dopo tutti i pat pat a noi, e gli occhioni sgranati, e compagnia bella, la situazione critica si presenta, o ripresenta, magari qualche anno dopo, quando ormai eravamo tranquilli che li avevamo visti interiorizzare la cosa. La frase razzista detta al compagno, il commento da cyber-bullo che scappa, la divisione maschi e femmine, il soccombere alla pressione fra pari, l’uso di internet di notte, il bigiare la scuola, il mentire sui compiti, l’ebbrezza di provare la situazione pericolosa, la scorciatoia pur di avere quello che si vuole, la reazione incongrua e ostile ad una circostanza difficile. Eccetera eccetera, l’adorata prole non sembra proprio cogliere il collegamento, che quel discorso lì, di quella sera lì con la cioccolata, era quello che avrebbero dovuto tirar fuori per applicare nel qui e ora.
Insomma eccola là, la stanchezza del ripetere. Il “Quante volte? Settanta volte sette.” La stanchezza di dover trattare ogni volta come una nuova volta, una nuova puntata in cui certo si può far riferimento ad un discorso vecchio ma bisogna ritrattarlo come nuovo, totalmente rinfrescato e rinvigorito. Per una persona introversa come me, non nel senso di “timida”, gli introversi non sono timidi, ma proprio come persona cui i rapporti umani intensi causano un prosciugamento di energia colossale, tutto ciò è infinitamente spossante. Per una persona poi come me per cui il linguaggio, il parlare, non solo è importante, ma è l’unica via di uscita dai conflitti, accorgersi che le parole hanno un potere limitato, specie con gli adolescenti rinchiusi nel loro mutismo, è estenuante e frustrante. Eppure bisogna, l’amore o la natura conservatrice della specie mi impongono di proseguire. E si riparte, si riprendono esempi vecchi e nuovi, si riformano metafore, ci si lancia in dialoghi socratici per aiutarli a raggiungere loro le conclusioni che ritengono giuste. Ci si abbraccia e si torna a dormire. Ma questa volta il pat pat è meno entusiasta, si sa perfettamente che non sarà definitivo, non era la prima e certamente non sarà l’ultima volta, la pagina non si può voltare. Pat pat, e magari tisana fumante.
Repetita defatigant.