Quest’anno mio figlio frequenta il sesto anno di scuola in Svezia, che corrisponde alle nostre scuole medie, e alla riunione dei genitori di inizio dell’anno abbiamo conosciuto delle persone che per i nostri figli potrebbero fare la differenza tra l’uscire sani e salvi da una situazione difficile, o andarsi ad infilare in una situazione peggiore. Si tratta di persone, spesso giovani, che lavorano per il comune per entrare in contatto con i ragazzi minorenni (tra i 12 e i 18 anni), farseli amici, conquistare la loro fiducia, per poterli aiutare quando si trovano in situazioni difficili.
In svedese si chiamano fältassistent, che possiamo tradurre come fieldworker, o in italiano ho pensato di tradurlo come assistenti in campo, ma non so se c’è una traduzione più adatta.
In pratica funziona così. Gli assistenti iniziano con il frequentare i cortili delle scuole durante intervallo, o i luoghi in cui i ragazzi si incontrano il pomeriggio. Lo scopo di queste visite è di farsi vedere, e quindi conoscere e riconoscere, ci parlano di quello che li riguarda maggiormente, amore, amicizia, mobbing, violenza, droghe e alcol, fanno in modo di conquistare la loro fiducia e di fargli sapere che possono rivolgersi a loro se hanno bisogno di aiuto. Fanno anche in modo che i ragazzi si segnino il loro numero di telefono sul cellulare. Il venerdì sera, gli assistenti si recano nei punti caldi della città, là dove si sa che avvengono cose, dove i ragazzi si danno appuntamento, magari scoppia qualche litigio che finisce in rissa, o magari semplicemente c’è movimento. Gli assistenti girano tutta la sera, e la notte, muovendosi di luogo caldo in luogo caldo, e si fanno vedere in giro. Salutano, chiedono come va, e il test di matematica poi come è andato, tutto bene con la ragazza? Insomma sono lì, tra loro, si interessano, ci parlano, sono visibili. Se vedono qualcosa di strano, magari si fermano a fare due chiacchiere in più. Se vedono tensione e che sta scoppiando una lite, magari invitano qualcuno ad andare a casa. Insomma chetano acque, raffreddano animi agitati, fanno da pacieri, riportano un po’ di calma. Si comportano un po’ come i fratelli grandi che intervengono nelle liti tra i piccoli, senza bisogno di andare a chiamare i genitori.
In uno di questi incontri ci hanno raccontato ad esempio una situazione tipica che può avvenire ai giovani oggi. I genitori sono fuori e la casa è libera. L’adolescente di turno, chiamiamolo Erik, decide di invitare qualche amico a casa sua, cosa che magari ha anche concordato con i genitori. Però succede che uno degli invitati scrive qualcosa su un social media, tipo “stasera party a casa di Erik”. Altri leggono, e magari si presentano a casa di Erik in cinque. Erik apre la porta e non riesce a dire andatevene, perché non è facile dire a qualcuno “tu non sei invitato”. Poi ne arrivano altri dieci. Poi ancora dieci. E insomma improvvisamente Erik si ritrova un centinaio di ragazzi e ragazze a casa sua. Gente che non conosce, o forse qualcuno si, ma non tutti. Si stappano bottiglie, bevono, festeggiano come sanno festeggiare gli adolescenti. Erik sa che tra poco dovrebbero tornare i genitori, e non sa come fare a liberarsi da questa invasione. A questo punto la cosa può finire in vario modo, e uno dei modi più brutti in cui finisce è che i genitori rientrano a casa, trovano quel casino, si arrabbiano, volano parole grosse, magari parte qualche spintone, viene chiamata la polizia, e no, non finisce bene per nessuno, sopratutto non finisce bene per i genitori di Erik se hanno messo le mani addosso a dei minori.
Ma può finire in modo diverso. Erik sa che i genitori potrebbero tornare da un momento all’altro, non sa che fare, ma ha il numero di cellulare degli assistenti. Li chiama, loro arrivano, entrano alla festa, accendono le luci, spengono la musica, e mandano tutti a casa. La festa è finita. Certo magari c’è da riparare i danni, sistemare la casa, ma il peggio è evitato.
Chiariamo subito che per diventare assistenti bisogna prepararsi, c’è una laurea dietro, si studia sociologia, psicologia, diritti umani, pedagogia sociale, e si imparano tecniche da utilizzare in campo con i giovani. Sanno quello che fanno i ragazzi in questo momento, le dinamiche difficili, giochi di potere e di manipolazione, quali droghe girano, quali rischi si corrono. Insomma hanno mezzi e conoscono cose che noi genitori nemmeno ci sogniamo.
Spesso lavorano in collaborazione con la polizia di zona, ma non sono poliziotti, e non lavorano per combattere il crimine, ma per la prevenzione. E uno degli strumenti più importanti per loro è di meritarsi la fiducia dei ragazzi, e fanno molta, moltissima attenzione a non passare per quelli che poi faranno la spia. Motivo per cui gli assistenti ci sono, lavorano con i ragazzi, ma non contattano i genitori. E questo ce lo hanno detto chiaramente alla riunione: se vediamo tuo figlio fare uso di droghe, non ti chiamiamo. Gli parliamo, gli offriamo aiuto, gli diciamo a chi rivolgersi per ricevere aiuto, cerchiamo di metterlo in contatto con servizi sanitari, ma non avvisiamo i genitori. Lo stesso vale ad esempio nel caso di ragazzine di 12-13 anni che concedono prestazioni sessuali a ragazzi più grandi in cambio di ricariche telefoniche (storia vera purtroppo!). Ci parlano, cercano di convincerle a smettere, a cercare aiuto, a parlare con i genitori, ma loro, gli assistenti, non chiamano i genitori. E non lo fanno, perché se lo facessero verrebbe meno la fiducia. L’adolescenza è tagliata con l’accetta, o stai di qua o stai di là. E se stai di là, dalla parte dei grandi, sei altro, sei fuori. E invece questi assistenti devono stare dentro. Ovviamente se è il caso vengono coinvolte le autorità, la scuola o la polizia, a seconda della situazione, e ovviamente se si tratta di un crimine prima o poi il genitore viene coinvolto, ma non dagli assistenti in campo.
La prima volta che sono venuta a sapere del lavoro degli assistenti in campo è stato difficile capire il loro approccio. Ho pensato che io sono il genitore, cavolo, e voglio sapere, voglio essere informata di tutto. Io devo avere il totale controllo sui miei figli, voglio sapere cosa, come, quando, ma soprattutto cosa (l’ho già detto cosa?). Io voglio decidere, io sola, magari insieme al padre, su come devo aiutare mio figlio. Dopo un paio di anni però inizio a vedere queste figure come delle benedizioni. Non so come sarà l’adolescenza dei miei figli, non so se entreranno a contatto con alcol o droghe, non so se faranno parte di giri difficili, e se mi permetteranno di seguirli, se si confideranno con me. Non so se gli capiterà di organizzare una festa con gli amici a casa nostra, e se correrò il rischio di tornare a casa dopo una serata a teatro con mio marito e affrontare un centinaio di ragazzi che hanno devastato casa. So però che se capiterà, sarò felice di sapere che i miei figli avranno altri adulti di riferimento su cui poter contare, che probabilmente sapranno gestire alcune di queste situazioni anche meglio di come le gestirei io. E alla fine, vi dico la verità, l’idea non mi sembra più così assurda.
Mi sembra bellissimo, qui da noi nei Paesi Bassi ci sono altre figure, per esempio i coach di quartiere, in genere giovani e che vanno a coppie con una giacca o un gilet fluorescente con la scritta sopra. Vanno in giro per i campetti e i giardinetti, a volte organizzano loro tornei o altre attività, buttano un occhio, spesso conoscono i ragazzini, ma credo abbiamo un campo di azione meno ampio, però stanno in giro per il quartiere, quindi è anche facile fermarli e dirgli: guarda che due strade più in là stanno facendo i cretini con i motorini, o mio figlio è rientrato piangendo dal campetto X andate un attimo a vedere.