L’expat a Natale (e felice anno nuovo)

(Dolce e chiara è l’alba in aeroporto. Il vento, viceversa, è garantito)

Beh, allora? Ce l’avete la valigia pronta? Ehi, psssst, dico a voi, fratelli e sorelle expat, siete pronti per la rimpatriata (letteralmente parlando) natalizia? Come vi sentite, siete carichi? Siete già stanchi? Avete grandi aspettative, o grandi timori? Non vedete l’ora di partire, o di tornare indietro?

Chiedo venia ai lettori abituali, ma prima di proseguire devo avvisare che questo è un post in codice. Potranno leggerlo soltanto coloro che, expat di lunga data, stabiliti in terra straniera da un numero eroico di anni (maggiore o uguale a dieci, sedici nel mio caso), abbiano superato nell’ordine le fasi seguenti:

  1. la fase logorroica, in cui si conversava a briglia sciolta: con i locali propinando, non richiesti, aneddoti sull’italianità ad ogni occasione, con i compatrioti in sede lamentando la mancanza di generi di confort primari (come l’espresso o il bidet) e con i compatrioti in patria esagerando le meraviglie del paese ospitante;
  2. la fase snob, in cui si fingeva di essere locali quando si sentiva parlare nell’idioma natio sull’autobus;
  3. la fase complessata, in cui ci si sentiva in obbligo morale di almeno considerare la possibilità di rimpatriare;
  4. arrivando alla fase in cui si ammette alfine di esserci per restare, si smette di puntualizzare che la vera pizza non ha tutti questi condimenti, e si comprende appieno il significato profondo del caffè in una mug.

Ecco, com’è il vostro Natale, con la valigia in mano? Vediamo se somiglia al mio.

È un Natale INTRANSIGENTE, perché noi abbiamo davvero avuto la possibilità di ricominciare da zero, per chi lo ha desiderato, come diceva Polly l’altro giorno. Con la decisione di partire, abbiamo avuto in regalo una tabula rasa: abbiamo impostato la vita proprio come abbiamo sempre desiderato fare, come non avremmo forse potuto se restati in patria, e anche le decisioni “estreme”, come il no-TV o le scelte ecologiche di cui parlava Elisa, sono in un certo senso più facili da implementare, e senza neanche la penalità di doversi giustificare, che l’espatrio è una giustifica ad ampio raggio di applicazione, ad asso-piglia-tutto, con quelli a casa, e l’essere stranieri lo è altrettanto con quelli locali. Una botte di ferro praticamente.

È un Natale INSTABILE, perché quando te la sei costruita questa vita tutta tutta tua, allora a Natale, a Natale specialmente, ché in estate si sa tutto diventa lasco e leggero, insieme alla valigia impacchi un senso di alienazione nel tornare indietro, la sensazione di stare ricalcando le orme di passi già percorsi, ma allo stesso tempo orme che non riconosci tue, il piede non ci rientra con la stessa facilità, naturalezza di una volta. È un po’ come quando il tuo corpo subisce un drastico cambiamento, per una condizione, per una malattia, un’otite, che ne so, e se ti guardi allo specchio lo sai che sei tu, ma allo stesso tempo non riconosci quell’immagine, e questo ti crea una dissonanza interna.

È un Natale INCONGRUO, perché sei lì che cerchi di barcamenare il prima e il dopo, intersechi arditamente Jack Frost e la Befana, panettoni e mince pies, in una tradizione che non è tradizione come la definisce il vocabolario, ma anche questa un neologismo bilingue (o tri?) tutto tuo. Senza dire che devi anche abituarti ad uno strano senso di scollamento dai tuoi stessi figli, sangue del tuo sangue, per i quali tutte le cose che tu vedi ancora, in fondo, con l’occhio ammirato di chi le scopre la prima volta sono invece “casa”, familiarità, e quelle invece che per te sono assodate, consone, obsolete quasi, sono l’esotico e il caratteristico.

È un Natale INCOMPIUTO, perché devi lasciare tutto sul più bello, quando tutti son pronti ad infilarsi nel tepore dell’atmosfera, tu devi prendere e partire. E allora neanche ti va di decorare la casa, l’albero, il presepe, tanto non ci sarà nessuno a girarci intorno nel giorno di festa. A volte ti metti anche, specie se i bambini si entusiasmano, ma a che pro cominciare il calendario dell’Avvento se poi le ultime 4 o 5 caselle non le apre nessuno?

È un Natale IMPAZIENTE, un Natale di grandi conflitti, ti scopri tuo malgrado, e non lo vuoi ammettere con te stessa, ansiosa di bruciare le tappe, tagliare i ponti: decidere una volta per tutte che questa, questa qui dove sei ora, è casa tua (strano che non lo diventi mai totalmente, che bisogna sempre raccontarselo di nuovo). Quest’aria di favola nordica che vedo dalla finestra è Il Mio Natale, e io non sono più in vacanza, posso anche io scivolare nel confort ora? Quando arriva il mio turno? E quasi sembra di star sprecando tempo, ora i bimbi sono piccoli, ma non per molto, boy-one compirà nove anni a gennaio, e ho perso il treno, chi mi restituirà la magia di questi Natali che non ho potuto festeggiare a casa mia?

È un Natale IDIOSINCRATICO allo stesso tempo però, perché pensi anche alle tradizioni della tua terra, e ti dici che belle che sono, le guardi con occhiali rosa probabilmente, ti dici che non solo le vuoi godere, ma le vuoi proprie, le vuoi impiantare anche nei boys, mi rendo conto che stanno vivendo dei Natali specialissimi e diversi, stiamo annaffiando il loro campo di ricordi per quando saranno grandi. Ne saranno contenti? Si sentiranno diversi? Che poi lo sono già diversi in fondo, e certo meno male che sono diversi in un posto dove l’individualità sembra essere un pregio, non un difetto.

È un Natale INVIDIOSO anche, perché ti senti un po’ defraudata di qualcosa: i bambini sono contenti, stabili, e confortevoli, e noi allora? Chi ci fa sentire contenti, stabili e confortevoli? Su quali spalle ci possiamo appoggiare?

Il fatto è che noi siamo il legame, il  ponte, noi stiamo lavorando per loro, stiamo costruendo, da zero, il crogiolo che diventerà, un giorno, tradizione. Noi stiamo traghettando questa famiglia dall’altra parte, non c’è tempo per sentimentalismi, c’è tanto da fare. E ce ne sono tanti, di traghettatori, con noi, e prima di noi: li riconosci, al ritorno in aeroporto, i visi stanchi, gli occhi malinconici, che però si riattivano non appena atterrati in quella che ora è casa, quando dal finestrino ritrovano quei panorami che ancora sembrano vacanza, certo, non smetteranno mai di sembrarlo, ma sono anche casa, casa vera. Li riconosci, i traghettatori, fra i nonni, circondati da nipotini da improbabili nomi meticci, rigorosamente pronunciati con accento locale, in un italiano pure questo meticcio, come il tuo del resto. Loro non hanno bisogno di tornare indietro a cercare il Natale, perché ce l’hanno fatta, a traghettarli tutti dall’altra parte, a inventare una nuova tradizione familiare, che ora è vecchia di ben due o tre generazioni. Li guardi e sai cosa costa arrivare lì, ma sai che è lì che arriverai anche tu.

E allora, cari fratelli e sorelle expat, che siate italiani all’estero, o immigrati in terra italiana: che possiate passare un intransigente, instabile, incongruo, incompiuto, impaziente, idiosincratico, invidioso, e indimenticabile Natale. E felice anno nuovo, ci mancherebbe.

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