Era l’estate dei miei diciassette anni, come ogni anno si stava in palestra anche dopo la fine del campionato per approfondire alcuni aspetti di tecnica, per migliorare la resistenza, per rafforzare i muscoli. C’era quella stanchezza un po’ ignorante, silenziata dal grande entusiasmo e dai buoni risultati ottenuti.
Avevo saltato la gita, mi perdevo tutti i sabati pomeriggio a fare le vasche per il corso e gran parte delle feste: un po’ mi fregava, ma anche no. C’era proprio un altro modo di vivere i diciassette, nessuna sensazione di dover essere più grandi e poche esigenze sociali.
Se proprio dovevo fare la gradassa con qualcosa, allora mi facevo bella coi punti messi a segno quando facevo qualche apparizione con la squadra maggiore, avevo una postura tutta mia incontrando le coetanee che giocavano a pallavolo e arrancavano nei campionati giovanili e minori: spalle dritte, camminavo molleggiando e tirandomela un bel po’, ognuno mostra quello che gli viene meglio.
Insomma si prevedeva un’estate normale, tra la spiaggia e la palestra. Caldo, un po’ di fatica, divertimento.
A giugno si fanno i conti con l’equipaggiamento sfinito: ginocchiere bucate, scarpe consumate. Era ora di comprarne un paio nuove.
Quella stagione lì erano andate fortissimo le Tiger, quelle bianche con le righe blu scuro; ce le avevano quelli della serie A perché erano le scarpe della nazionale, ce le avevano un paio di compagne più fortunate. Non pensate a quelle che girano oggi, non sono nemmeno riuscita a trovare una foto su Google: era una specie di icona dei pallavolisti, notoriamente fighetti quasi quanto i Milanesi a Cesenatico.
Qualche tempo fa, nella mia adolescenza, era prassi comune tenere le scarpe fino all’ultimo barlume di decenza; non ero certamente più nell’età in cui la scarpa passa di numero ad ogni stagione perciò le calzature -soprattutto quelle sportive- si sfruttavano fino all’ultimo, con una specie di vanto ad ogni buco sulla tomaia e ad ogni volta che si staccava un pezzo di suola, strisciata vigorosamente al servizio.
Niente da dire: ora come allora, la sicurezza veniva prima di tutto.
Con tutta la buona volontà non potevo più fare a meno di comprarne un paio nuovo; sapevo che i miei avrebbero acconsentito ad ogni richiesta: in fondo in modelli erano due o tre e i prezzi potevano eguagliarsi.
Quell’anno avevo visto la nazionale in un concentramento nella mia città, sapevo che quelle scarpe erano in dotazione con la divisa. Ora che era il momento di decidere le scarpette nuove avevo avuto una specie illuminazione; me lo ricordo come fosse ora, una sensazione definitiva e leggera: non le compro quelle Tiger lì, aspetto ancora un po’ e me le vado a prendere in nazionale.
Passa qualche giorno e tornando a casa dalla spiaggia vedo mia madre sulle scale: “Luci ti cerca l’allenatore, ha bisogno di parlarti, dice che ti hanno convocato in nazionale”. Non ho subito realizzato, non mi pareva possibile.
Poi è arrivato il telegramma, la concitazione, i preparativi per la partenza.
Credo mi abbiano accompagnato i miei, la memoria mi gioca brutti scherzi, avrei detto di essere partita da sola col treno ma so che in realtà questo non sarebbe mai stato possibile: piuttosto che mancare questo sostegno mio padre si sarebbe fatto tagliare un braccio.
Una serie di giorni velocissimi ed esaltanti di cui ho perso quasi tutto; ricordo benissimo una cosa solamente: la consegna della dotazione azzurra con le scarpe posate sopra la maglietta.
Altre volta nella vita mi è successo di avere delle soddisfazioni, alcune prima di quel giorno, tante dopo, in certi casi si è trattato di sport, altri hanno riguardato la vita. Solo quel giorno però ricordo chiaramente di avere pensato “ce l’ho fatta”: che a voler ben guardare sono parole di una carica immensa per tutto, potresti scalare una montagna senza respiratore, scavare il marmo a mani nude. L’arrivo dopo tanta strada, il coronamento della fatica, l’inizio di un sogno: una cosa bellissima rappresentata da un paio di scarpe da ginnastica. Scarpe che sono un po’ il simbolo del cammino, rivestimento onesto di passi incerti, scarpe intese come collegamento con la terra, scarpe che ti fanno stare in piedi proprio quando vorresti stenderti e mollare.
Mannaggia se avessi avuto un blog allora: di quella estate ho a disposizione solo poche fotografie, i contatti con alcune delle ragazze e l’emozione dei ricordi. Di questi ultimi mi sfuggono i particolari, le istantanee, lo sviluppo storico degli avvenimenti. Ho sensazioni meravigliose, tenere, passionali e molto alterate presumibilmente.
Forse è meglio così, ricordare ed elaborare navigando a “mente” restituisce un brivido più grande: ho delle storie da raccontare a mia figlia, alle nipoti, ora con le lacrime agli occhi, forse fra qualche anno con un po’ di colore e leggerezza in più.
(foto credits @ 55 Laney69 )
Racconto emozionante, mi è tornata in mente quella splendida canzone di Niccolò Fabi, “Chiudi gli occhi / immagina una gioia / molto probabilmente / penseresti a una partenza / penseresti all’odore di un libro nuovo / a quello di vernice fresca / a un regalo da scartare / al giorno prima della festa / al 21 marzo al primo abbraccio / a una matita intera la primavera / alla paura del debutto / al tremore dell’esordio …”
Allo staff di gc piacerebbe vedere questo post sul red carpet dei #MIA14 – Macchianera Italian Awards come miglior articolo. Magari non siamo i soli.
Per votare la sua candidatura ho inserito l’apposito pulsantino in fondo al post: basta cliccare sulla freccina in su!
Bellissimo! Brava e fortunata.
Grazie a tutte.
E’ così che vorrei fosse lo sport: un rapporto equilibrato tra divertimento e cultura.
Per quanto riguarda le scelte che facciamo per i nostri figli: difficilissimo prevedere il futuro, impossibile direi. Partiamo sempre dal presupposto che siamo in assoluta buona fede e che stiamo costruendo una base per far spiccare il volo.
penso a mia figlia sui pattini e a tutte le pippe mentali che mi faccio. Se la sto stressando senza volerlo. Se manifesto aspettative che non dovrei avere. Se è davvero così fondamnetale. Penso a come, chissà perchè, io sia arrivata alla soglia dei 40 a ritenere che lo sport sia davvero importante. Ti leggo. E ecco, ho un motivo in più per credere che ne valga la pena, e, ovviamente, per amarti :p
Meraviglioso, Lucia. Davvero.
Devo riuscire a leggere questo post ad Andrea. Perché quel pensiero, quell’istante in cui capisci che qualcosa devi andartelo a prendere e devi farlo mettendo tutti i passi in fila, senza saltare, senza prendere scorciatoie, è potente e dirompente. La vera rivoluzione della giovinezza. E se magari ti ci imbatti a 17 anni, poi la rivoluzione te la porti dietro.
Vedi Lucia, quando racconti della tua pratica agonistica tu mi dai l’ idea di un mondo possibile, perché pure io ho fatto tanto sport, ma non in maniera focalizzata come te, non in una squadra, ogni anno o quasi una nuova disciplina, l’ unica che ho tenuto duro sul serio sono state le arti marziali che tornavano sempre indietro ogni paio d’ anni, fino a che sono approdata al kung fu e mi sono trovata a casa, solo che poco dopo è iniziata l’ università e un maestro così non l’ ho più avuto (e ho smesso alla fine con lo sport). Infatti anche questo momento è uguale e contrario, io l’ uniforme da kung fu per scaramanzia in due anni e mezzo non l’ ho mai comprata.