Sun Tzu (nell’Arte della guerra) disse:
Se la zona è accerchiata, si elaborano trame: di fronte alla morte, si combatte.
Vi sono cammini che non vanno seguiti
Vi sono eserciti che non vanno assaliti
Vi sono città che non vanno attaccate
Vi sono terreni su cui non ci si affronta [..]
Qualcuno un giorno mi spiegò che questo libro era un ottimo riferimento anche per chi voglia costruire la pace, perché insegna a comprendere i limiti delle proprie forze e a dare motivazione al conflitto. Il conflitto, ci dicono, è inevitabile. E’ inevitabile per noi e per il nostro avversario.
Che accade, quando l’avversario è nostro figlio? Perché finiamo per scontrarci, quando siamo perfettamente consapevoli dell’intenso coinvolgimento emotivo con cui ci investiamo nel rapporto con lui e di quanto possa essere doloroso scontrarci con “una parte di noi”?
Mi direte: non siamo noi, genitori, è lui/lei che improvvisamente è cambiato/ha iniziato/fa. Lo so, mi succede quotidianamente. E nonostante ci siano “cammini che non vanno seguiti”, finisco spesso per percorrerli, consapevole che già solo il fatto di intraprenderli è un errore, una trappola in cui io e lui/lei stiamo finendo perché, appunto, ancora un po’ inesperti dell’arte della guerra. Il trucco sarebbe bloccarsi prima, prima che l’interazione diventi un conflitto, per interrogarsi su un modo diverso di affrontare il problema, a volte guardandolo come se non fosse un problema.
Perché il punto è questo: dov’è che un atteggiamento, una risposta, un’infrazione alle regole diventa un problema? Dove è vista come motivo di “attacco”, dove è letta come legittima causa scatenante di un conflitto? Letta al contrario la vicenda, il problema sta in chi “legge” in un determinato gesto una causa di conflitto.
Vi propongo un’episodio fuori tema. Una professoressa italiana seguiva per ragioni di ricerca degli studenti nella loro vita quotidiana, a Roma e a New York. Quando, seguendo una studentessa americana, si trova di fronte a un professore in pantaloncini corti, le sue prime emozioni sono di imbarazzo, sconcerto, allarme. L’attimo successivo, si rende conto che sono emozioni solo sue, che derivano dalle sue radici culturali, che non sono quelle degli studenti attorno a lei che difatti proseguono indisturbati nelle loro attività e nel confronto con il professore (Marianella Sclavi “L’arte di ascoltare e mondi possibili”).
Ognuno è un mondo culturale a sé, insegna il libro. Talvolta, occorre uscire dalle proprie cornici culturali per scoprire che esiste una terza via che non sia essere uguali o essere avversari.
Le emozioni che proviamo, spesso reazioni automatiche a certi avvenimenti, appartengono a un nostro universo culturale.
Anche nostro figlio, è un mondo culturale a sé. Bettleheim (Un genitore quasi perfetto), proprio parlando dei conflitti con i figli, suggerisce “il principio fondamentale di ogni giudizio equo esige infatti che si conceda all’avversario il beneficio del dubbio”.
Ma, continua, “il nostro intenso coinvolgimento emotivo in tutto ciò che riguarda i nostri figli fa sì che si sia profondamente infelici quando essi agiscono contro i nostri desideri”.
Riprendendo un po’ le fila. Io sono un universo culturale, che comprende la mia storia, la mia cultura, le mie emozioni. Anche mia/o figlia/o è un universo culturale. Quello che per me è un “attacco” perché agisce contro i miei desideri, per l’altro non è detto che nasca con quello scopo.
Secondo Bettleheim, “il coinvolgimento emotivo nei confronti di nostro figlio (dopo tutto, siamo noi che lo abbiamo messo al mondo, che gli abbiamo insegnato tutto quello che sa, che l’abbiamo accudito giorno e notte) ci induce a credere di conoscere già le sue motivazioni”.
Ma le motivazioni dell’altro vanno conosciute con un minimo di obiettività.
In effetti, ci ricorda sempre Bettleheim , “ i sentimenti positivi che emanano dai nostri gesti a convincere il bambino della sua importanza per noi, un’esperienza di cui ha un bisogno assoluto per riuscire a credere di poter essere importante anche per altri. Tant’è vero che, per quanto sia doloroso, per il bambino suscitare nel genitore sentimenti negativi è pur meglio che niente. […] il bambino vuole essere oggetto soltanto delle emozioni che lo riguardano personalmente”.
L’esempio riportato dalla Sclavi nel suo libro è uno degli esempi su cui lei costruisce la sua teoria di gestione creativa dei conflitti, un savoir faire composto di una capacità di ascolto attivo e di autoconsapevolezza emozionale cui si diventa consapevoli dell’importanza delle cornici di cui siamo parte e si impara a costruirci sopra un ascolto auto-ironico con cui creare soluzioni diverse ma soprattutto interpretazioni nuove di comportamenti che prima ci sembravano assurdi o orientati a scatenare una nostra reazione “forte”.
Tornando a Sun Tzu, prima di entrare in un conflitto, controlliamo gli eserciti. Che cos’è che stiamo vivendo? Che emozioni ci sta facendo vivere un atteggiamento oppositivo? Abbiamo paura, di perderlo? Ci sentiamo in colpa, accusati? Siamo tristi, perché ci sembra che nostro figlio sia infelice per causa nostra?
Ma poi, seriamente, è questo che ci sta dicendo?
O ci sta chiedendo di essere lui, di avere un’idea, visione, luce diversa dalla nostra e ci chiede di essere amato come “lui” e non come nostra creatura? O ci chiede attenzione e basta e l’unico modo che ha è “attaccare” qualcosa a cui teniamo?
Bettleheim, parlando della buona riuscita scolastica, dice che spesso per assurdo, l’importanza che vi viene attribuita dal genitore, viene percepita dal figlio come se al genitore non importasse nulla di lui. A tratti, lo sperimento su di me, è vero. Curando la tua cartella, i tuoi compiti, i tuoi codini, talvolta mi prendo cura di qualcosa di trascurato in me. Ma oggi è oggi. E i codini, il grembiule, la merenda non sono i miei.
Avete presente quando Mr. Incredibile non vuole comprendere i problemi di Flash nel restare nelle cornici scolastiche e Elastigirl gli risponde “non stiamo parlando di te”?
Questa è la frase “magica” che spesso mi aiuta a fermarmi prima di intraprendere i cammini che non vanno intrapresi. Spesso, non sempre. Ma un conflitto evitato, talvolta, è un pezzo di mondo in più conosciuto.
– di Silvietta –
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Ci sono due cose che mi vengono in mente. Da un annetto i miei figli mi ripetono che sto diventando più simpatica. Certo, non così simpatica come il padre, ma più di quello che si aspettano da me. confesso che la prima volta mi sono offesa (io che sto limitando il mio lavoro e i miei hobby per seguirli ,non sono simpatica come il padre che la domenica li porta a nuotare? Cara grazia, non è lui che la mattina vi deve spingere col cannone fuori dal letto e sulla strada della scuola, lui è quello che fa rimostranze perché lo faccio male e arriviamo in ritardo. Fare i simpatici in piscina siamo capaci tutti). Ma ho capito cosa intendono e l’ ho capito perché d quella prima volta mi sono messa ad osservare le differenze tra le mie tecniche e quelle di mio marito. E mi sono messa ad osservarle perché eravamo arrivati tutti al limite. Poi io sono io e se non faccio un urlaccio esplodo o mi viene l’ ulcera, maschio alfa è maschio alfa e piuttosto che urlare si fa venire l’ ulcera e alla fine siamo simpatici tutti e due, ognuno con i propri limiti.
La seconda cosa è, che come forse sai, da alcuni mesi stiamo facendo un percorso introspettivo, tutta la famiglia, ognuno per i motivi suoi. E recentemente osservavo che i conflitti al mattino non ci sono quasi più, e alla domanda: e cosa hai cambiato, perché adesso è diverso, io una risposta sul momento non l’ avevo, ma adesso che leggo l’ inizio di questo post, penso che dipenda semplicemente che ho capito quali sono un paio di terreni su cui non devo andare. Ed evidentemente funziona. Grazie per avermelo fatto capire.
Adoro il libro du Sun Tzu, è un vero trattato di strategia militare, ma è sempre interpretabile come una metafora sulla vita.