Sport, movimento, educazione motoria, educazione fisica, ginnastica, ginnastica educativa, correttiva, scienze motorie e sportive ecc.. sono alcune delle definizioni che si danno al corpo e al suo muoversi nella vita quotidiana, nelle scuole, nelle palestre e nei luoghi preposti.
Al corpo viene demandato il compito di stare bene (per portare a spasso il cervello?), ad esso si
delega l’apprendimento di uno stile di vita equilibrato e delle buone abitudini, garanzia di un
vivere sano ed armonico. Rincorriamo corsi di tutti i tipi, le ultime mode, camminiamo, corriamo, giochiamo a tennis la domenica, a calcetto il giovedì, ci compriamo cyclette, tapis roulant e macchinari futuristici per mantenere il nostro corpo sempre pronto e “in forma” ed è cosa buona e giusta, per un lato.
Ma una domanda mi si pone sempre ogni volta che, svolgendo la mia professione di docente, mi trovo davanti a ragazzi, alunni, docenti, genitori che si confrontano con me riguardo questa materia scolastica e sportiva. Mi chiedo se chi ho davanti si accorga realmente della presenza del proprio corpo, del proprio atteggiamento posturale, delle proprie tensioni muscolari, del proprio comunicare a chi osserva, nel momento in cui parla, nel momento in cui esegue un nuovo movimento, un “esercizio” o come preferisco dire io (prendendo dai grandi del passato) una esperienza nuova acquisita attraverso il gesto motorio.
Aspetto necessario affinché il corpo entri in sintonia con se stesso, e si riconosca in tutte quelle espressioni e modifiche del tono muscolare mai precedentemente sperimentate e che deve poter integrare al fine di un ampliamento e differenziazione del bagaglio motorio e psichico. Ciò costituisce la nostra interezza psico-fisica, capace di accogliere segnali da entrambe le dimensioni, portando così esperienza e cambiamento del proprio stile di vita.
Partire dalle sensazioni, dal sentire, per accorgersi di esistere con un corpo che occupa uno spazio ed ha dei tempi e delle risposte diverse per ognuno di noi, rappresenta la possibilità di esperire se stessi.
Conosciamo tutti molto bene la sensazione di portare un carico pesante ed eccessivo sulle nostre spalle, tra le nostre mani, anche sotto i nostri piedi. Ma se vi chiedessi, ora, a quando risale l’ultimo ricordo di rilassamento motorio che avete sperimentato, quello per cui alla richiesta di “mollare” la tensione vi siete accorti che tanto ancora mancava prima di abbandonarsi di più e di più, fino al punto in cui il vostro corpo poteva, finalmente, dirsi rilassato, cosa rispondereste?
L’equilibrio tonico-posturale è una continua connessione tra tensione e rilassamento che devono bilanciarsi e di cui ci si deve accorgere col corpo e con la mente.
Proponendo varie esperienze ai miei ragazzi, e chiedendo un ascolto attivo di ciò che il corpo segnalava loro, dall’inconsapevolezza si arrivava a segnali via via più consci e quindi riconoscibili e utilizzabili per la vita personale e di relazione.
I risultati di queste esperienze risultano visibili da subito. Entrando in classe, alla domanda “come stanno i vostri piedi?”, superate le iniziali risate di sorpresa, l’attenzione veniva spostata proprio a quella parte terminale, così distante dal cuore e dal pensiero ma che ha il grato compito di sorreggerci fin dal primo momento della nostra alzata mattutina. I sorrisi scaturiti (e quindi il rilascio della tensione emotiva e motoria) e la ri-scoperta consapevole di “possedere due piedi!” orienta immediatamente l’asse della percezione rimandando al corpo ciò che è proprio del corpo (materiale, fisico) traendone però informazioni, percezioni, sensazioni che vengono rispedite al sistema nervoso centrale in un ciclo continuo di relazione, di cui a giovarne siamo noi stessi e il nostro pensiero.
La tensione emotiva scolastica (ma anche lavorativa) della prima ora del mattino cambia e diminuisce, con questi piccoli accorgimenti, dove ascoltarsi diventa un modo per prendersi carico di se stessi e di ciò che stiamo per fare (concentrazione, apprendimento, compiti, riunione di lavoro, ecc..) operando così con maggiore consapevolezza.
Ed è tutta qui la differenza! Che sia in un alula scolastica, in una palestra, in un campo sportivo, dovunque e con chiunque, ogni volta che ci troviamo ad “allenare” il nostro corpo o ad utilizzarlo per le relazioni dovremmo imparare ad ascoltarci e sentirci più profondamente.
Il processo di apprendimento di un gesto necessita di tantissime correlazioni, che non possono
essere in nessun modo sottovalutate e, anzi, devono essere facilitate e sollecitate con metodo
ed attenzione da parte di chi si occupa di insegnare per professione.
Insegnare questa materia vuol dire porsi nella condizione di ascolto di se stessi e dell’altro, del bambino, del ragazzo, dell’adulto, dell’anziano, che con le loro diverse peculiarità, età, condizioni e stili di vita, devono potersi affacciare a se stessi, vivendo una nuova e gratificante esperienza.
Troppo spesso allenatori, mister, docenti, maestri sportivi, mortificano allievi con metodi indotti dal passa parola generazionale e dalle tecniche tramandate di “maestro in maestro”, senza per contro vedere un giusta valutazione del patrimonio corporeo e psichico che ci appartiene e ci
rende unici. D’altronde si “apprende” attraverso un processo emotivo e l’emozione è il corpo.
E’ ora di iniziare a percepire il nostro “esserci”, anche quando ci si trova a dover affrontare
ripetizioni schematiche di ore ed ore di allenamenti. Ciò può consentirci di godere di un più
vasto panorama che può abbracciare benessere e pienezza. A mio avviso, in questo modo diventa bellissimo.
Messo in pratica: nell’esperienza citata, in cui l’insegnante entra in classe e pone la domanda “come stanno i vostri piedi?”, viene data la possibilità all’altro di ascoltare se stesso, di entrare in relazione con la propria postura, con il proprio modo di “poggiare” sul terreno.
E’ una metodologia che prevede una consegna che nel caso specifico può essere, ad esempio (*):
1. Ricercare la posizione in piedi simmetrica (quella in cui il corpo è ugualmente ripartito
sui due piedi) che dovrà essere mantenuta il più a lungo possibile senza fatica. Le
braccia cadono naturalmente lungo il corpo.
2. Cercare di precisare gli eventuali disagi che sopraggiungono mantenendo questa
posizione a lungo. In particolare tensioni dolorose a vari livelli.
3. Tentare di precisare le caratteristiche della posizione adottata a livello delle diverse
articolazioni.
Al lavoro svolto seguiranno scambi di opinione in relazione alle sensazioni percepite, alle difficoltà di permanenza nella posizione, alle sollecitazioni emotive e fisiche che possono
essere intervenute e si potranno suggerire delle osservazioni più approfondite che potranno
riguardare la difficoltà ad analizzare la propria posizione, le grandi variazioni individuali che possono riguardare la distanza, l’orientamento dei piedi, la rigidità più o meno importante
delle ginocchia, la posizione del bacino, la localizzazione delle tensioni muscolari eccessive
ecc.
Nel caso specifico delle classi con cui sono entrata in relazione, la presa di coscienza del
proprio modo unico di stare al mondo (in piedi, seduti su una sedia, in terra, supini, accovacciati ecc..) costituisce di per sé una opportunità imperdibile di diventare padroni del proprio corpo e della propria emotività.
(*) Tratto da: “Lo Sport nella scuola. Psicocinetica e apprendimento motorio” di Jean Le Boulch – Collana medico-psico-pedagogica diretta da G. Bollea.
– guestpost di Sandra Catalano –
docente di educazione fisica nella scuola pubblica, cantante, autrice, blogger