Ricordo benissimo le parole di mia madre di fronte alle mie incertezze sulla scelta universitaria: scegli quello che vuoi, purché ti renda felice. Io ho provato a pensare a cosa mi rendesse felice, ma non l’ho capito, e allora ho scelto quello che mi riusciva facile. Mi sono laureata in fisica, poi ho preso un dottorato di ricerca eppure non ho mai smesso di chiedermi se la mia scelta mi rendeva felice. Ancora oggi, molti anni dopo, non lo so se è stata la scelta giusta, se mi ha portato un passo avanti nella mia ricerca della felicità.
Perché lo scopo della vita è quello di essere felici, vero?
Del resto è vero che tutto quello che un genitore moderno si augura per i propri figli è di riuscire ad essere felici. Ma cosa significa questa felicità?
Osserviamo con timore i figli affrontare la vita e i cambi di scuola, sperando che nessun compagno di classe o insegnante mini la loro felicità, ci interroghiamo su quanti regali di natale o di compleanno dobbiamo comprare per garantire che siano felici il 25 mattina davanti all’albero di natale, ci preoccupiamo di chi sono i loro amici o compagni con cui trascorrono il loro tempo, ci armiamo di scudi protettivi per difenderli dai troppi compiti a casa e da delusioni scottanti. Facciamo di tutto per difendere la loro felicità, e ci adoperiamo al massimo perché sia garantito il loro diritto ad essere felici. Esistono osservatori internazionali che ci dicono quali sono i bambini più felici del mondo – per inciso, pare che siano gli olandesi – e numerosi best-sellers ci spiegano perché i bambini olandesi sono felici, e come crescere bambini felici come quelli olandesi.
Ma allora come è possibile che il livello di frustrazione non fa che aumentare? Perché siamo circondati da manuali, workshop, corsi di vario genere che insegnano ad essere felici, eppure non riusciamo ad esserlo? Perché il numero di suicidi tra i giovani è in aumento, nonostante il livello di benessere raggiunto sia certamente superiore rispetto a quello delle generazioni passate?
“Per i nostri nonni era tutto più semplice” mi spiega la mia amica Maria “loro semplicemente speravano che i figli trovassero un lavoro e che mettessero su famiglia, che avessero un tetto sulla testa. La felicità era il raggiungimento di cose molto pratiche.”
Ci penso su, e in effetti è vero. I miei nonni potevano misurare la loro felicità in modo molto concreto: il successo nella vita consisteva nel trovare un lavoro e formare una famiglia. Raggiunto ciò si era arrivati e ci si poteva dichiarare felici.
Io invece sto qui ancora a chiedermi se sto facendo la cosa giusta nella mia vita. Sono felice o avrei dovuto fare altro e allora sarei stata ancora più felice di così? Ho fatto la scelta giusta all’università? Ho fatto la scelta giusta nel trasferirmi a vivere in Svezia dove fa freddo e l’inverno è lungo e buio, o avrei dovuto trasferirmi su un isola del Pacifico per essere veramente felice? (E’ troppo tardi per trasferirmi a vivere in un’isola del Pacifico?) Ho fatto la scelta giusta ad avere figli a 34 anni o sarei stata più felice se li avessi fatti prima?
Non prendetela male, so che ho una bella famiglia, un buon lavoro, una bella casa e fortunatamente godo di buona salute. Non ho davvero nulla di cui lamentarmi. Eppure mi ricordo le parole di mia madre: “scegli quello che vuoi, purché ti renda felice” e non posso fare a meno di chiedermi: sono felice? Ho raggiunto lo stato che mia mamma mi augurava di raggiungere? La felicità non è una cosa bianca o nera, è una misura che varia in base al momento, alle aspettative, alle possibilità personali e dell’ambiente che ci circonda. E’ una misura relativa, e come tale non si può mai dire se si è raggiunta o meno.
Più ci penso più credo che questa sia l’origine della perenne insoddisfazione che contraddistingue l’era moderna: la ricerca della felicità. Forse augurare ai figli di essere felici è proprio quello che finisce per condannarli ad una eterna infelicità.
Mentre faccio colazione con mio figlio gli chiedo a bruciapelo se si trovasse in un’isola deserta, cosa vorrebbe avere con sé che lo renderebbe felice. Lui mi risponde quasi senza esitazione: una palla da basket! E rifletto tra lo stupito e il deluso sul perché non ha scelto la famiglia o degli amici, sul perché non ha scelto di avere con se gli affetti. Ha scelto una semplice palla da basket. Poi ho capito. La palla da basket per lui è la metafora perfetta del seguire la sua passione. E capisco quindi che la sua è una scelta molto concreta, decisamente misurabile e circoscritta all’interno di una sfera di raggio finito, è tangibile, e se ti colpisce in faccia non c’è nessun dubbio della sua concretezza (true story). Insomma, alla fine, come sempre, mio figlio è molto più saggio di me. Per essere felici basta portarsi dietro la propria palla da basket.
In realtà neanche i nostri nonni erano necessariamente felici quando raggiungevano quegli obiettivi pratici su cui avrebbero dovuto fondare la felicità. E tutta l’infelicità pur nel benessere e nella sicurezza pratica, costella secoli di letteratura, ben prima dei nostri nonni. Se tutti fossero stati felici con una bella famiglia e una casa, cosa ce ne faremmo di Anna Karenina? E dove sarebbero Antigone o Giulietta, se bastasse essere tranquilli e appagati di cose pratiche?
La storia umana è una serie di azioni mosse dalla ricerca di una maggiore felicità e la letteratura era lì per raccontarle. Quindi niente mito dei nonni felici! 😀