Noi abbiamo un grandissimo potere di condizionare la nostra vita per indirizzarla dove vogliamo, ma siamo anche molto condizionati dalla cultura in cui viviamo e dall’educazione che riceviamo. Esserne consapevoli è il primo passo verso l’autodeterminazione.
Si, sarebbe bello. O meglio: sarebbe brutto ma risulterebbe tutto decisamente più facile. Quante volte ci capita di pensarlo o anche semplicemente di “farci lo sconto” sulle cose che succedono. “Cosa potevo farci?”
“Non è dipeso da me” o il tanto odioso “Non è una mia responsabilità” vera frase immobilizzatrice di tanti luoghi di lavoro.
Locus of Control lo chiama Julian B. Rotter, psicologo statunitense morto un paio d’anni fa a quasi cento anni; il LoC è dove tu pensi che sia la “centrale operativa di ciò che accade” (detto con parole mie, ben inteso). In sostanza mette il cerino in mano alla persona e gli dice: guarda che non solo puoi decidere tu quello che succede, ma sei anche libero di pensare che non sia così.
Solo che non è così semplice perché il LoC non è solo “dentro o fuori” ma è un continuum e non è sempre attribuibile in modo netto.
Quando sentiii parlare per la prima volta di Locus of Control, nel mio allora implume cervello di matricola avvennero due effetti: il primo fu quello di sentire girare in loop il refrain della canzone di Raf. Il secondo fu una sorta di folgorazione: basta menarsela, sei padrone della tua vita.
Così almeno lo capii allora.
Non è proprio così, a dire il vero. Non che avesse torto Rotter, la cui teoria è piuttosto interessante, quanto avevo torto io a semplificare eccessivamente. L’attribuzione del LoC dipende anche da come siamo stati istruiti, dalla cultura in cui siamo immersi.
Così, anni dopo, mi trovai a studiare Levin e la sua “Teoria del Campo” (che noioso oggi, Gae, con tutta sta accademia un tanto al chilo). Cosa diceva Levin (che non è il bassista di Peter Gabriel)?
Sempre con parole mie: siamo come calamite messe su una lavagna magnetica. Ocio però! Non siamo calamite tutte uguali e in qualche modo esercitiamo una forza sulle altre calamite che, a loro volta, chi più chi meno (inteso anche come carica positiva o negativa, oltre che come quantità) esercitano su di noi un effetto di attrazione o repulsione. E in questo modo ci stabilizziamo in un campo magnetico che non è immutabile. Il campo stesso, e la percezione che abbiamo di lui, influenzano la nostra posizione e i nostri comportamenti.
Non so se Levin e Rotter si siano mai parlati ma io ho sempre trovato queste due teorie complementari: il campo in cui siamo inseriti e le cariche degli altri, apparentemente, non sono modificabili. In realtà la nostra carica è l’effetto che anche noi abbiamo sul campo e sugli altri.
Quanto possiamo fare noi per determinarla?
Un amore fortunato, la nascita di un figlio, un litigio con il compagno, la malattia di un genitore, il burn-out al lavoro sono tutte componenti che vanno a determinare la nostra carica che, come si intuirà facilmente, non è costante nel tempo.
Ma non dipende solo dall’esterno: come reagiamo, quanto riusciamo a prevedere le situazioni, quanto e come tolleriamo la frustrazione, i tempi che mettiamo a disposizione di una scelta, sia essa importante o meno, sono in mano nostra.
Insomma, anche a voler fare il secchione citando luminari, alla fine tocca dare ragione alla teoria di mamma Gump: “La vita è una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita”.
Poi siamo noi che decidiamo se mangiarne uno e credere alla sorte, se mangiarli tutti fino a che troviamo quello che ci piace o se decidiamo di richiudere la scatola e non mangiarne nessuno. Che poi, se sei a dieta, non è nemmeno detto che sia la scelta peggiore.
Ecco, vedi? A volte mi piacciono queste scoperte che mi danno l’idea di non essere completamente dissociato.
Lewin è stato professore di Rotter.
Maledizione, tutti i miei alibi sono andati distrutti e non sono nemmeno le nove di mattina. Cavolo, che bel post, denso e illuminante