Un albero cresce a Brooklyn di Betty Smith: meraviglioso leggerlo da ragazzi, sorprendente rileggerlo da adulti.
Rileggere un libro che si è sfogliato quando indossavamo fiocco e grembiule è come tornare in un luogo già visitato durante l’infanzia. Il rischio che ci deluda è verosimile: l’enorme salone di una casa ora non è che una bugigattolo di due metri per tre, eppure a noi sembrava così grande. Potremmo invece gustarci la sorpresa – e questi miracoli avvengono soltanto con i libri – di ritrovare quel salone ancora più grande di quanto ricordassimo, arricchito di suppellettili, quadri e mobilio che prima non vedevamo, o comunque osservavamo con la testa infilata nei giochi e fra i compiti per la scuola.
Il bello di rileggere un libro quando si è grandi è che lo si può fare con due paia d’occhi diversi, gli stessi che ci trasciniamo sulla faccia da una vita. A me è capitato con un libro in particolar modo: Un albero cresce a Brooklyn di Betty Smith, un classico della letteratura americana del ‘900. Fra i tanti che ho scoperto da bambina, è quello che sicuramente ha occupato un posto speciale nel mio cuore. L’ho letto più volte, anche da adulta, trovandovi sempre nuove sfumature.
E’ un racconto autobiografico in cui l’autrice sviluppa una strepitosa narrazione di sofferenza e miseria nobilitate dalla dignità personale e un percorso di emancipazione finale. Siamo nella Brooklyn del 1912, nel quartiere di Williamsburg, nel periodo immediatamente precedente il primo conflitto mondiale. La narrazione è in terza persona, e segue spesso il filo dei pensieri di Francie Nolan, una bambina undicenne innamorata della lettura. Racconta le vicende di una famiglia irlandese che vive nella povertà. I genitori di Francie sono giovanissimi: la madre è costretta a pulire le scale per sbarcare il lunario, suo padre è probabilmente il più bel ragazzo del quartiere. Non ha un impiego fisso, si mantiene con lavoretti occasionali soprattutto come cantante nei bar, ed è tenacemente attaccato alla bottiglia.
Un albero cresce a Brooklyn ci regala un affresco dei quartieri della città, da quello italiano a quello ebraico, affascinante e coinvolgente. E’ un libro lungo da leggere, soprattutto per un ragazzino, però scorre meravigliosamente. Non riuscivo a staccarmene, quando l’ho letto la prima volta avevo undici anni, la stessa età della protagonista. Il tratto che mi fulminò, letteralmente, è il momento magico in cui Francie impara a leggere, l’istante preciso in cui alla parola “cavallo” corrisponde, chiaro e forte, lo scalpitio degli zoccoli e l’immagine del suo crine lucente di sole. Ho provato esattamente le stesse sensazioni, la prima volta in cui ho capito come tradurre i segni in lettura. E’ stato un attimo sconvolgente e intenso, uno di quei momenti indimenticabili per un amante dei libri.
La forza dei personaggi femminili di Un albero cresce a Brooklyn era così distante dai modelli che tentavano di appiccicarmi addosso quando ero piccola da lasciarmi stordita. Il sogno di Francie è quello di diventare scrittrice e sfrutta tutta la sua creatività e intelligenza per emergere. Le sue storie sono troppo realistiche, troppo incollate a una realtà scomoda di fame, mancanza di lavoro, tristezza e povertà. Inadatte alla pubblicazione.
Nel romanzo si avverte il peso della mentalità ristretta dei primi anni del secolo scorso, e ci si indigna con Francie davanti alle discriminazioni e alle ingiustizie che i poveri devono subire, rispetto ai ricchi. In più, la bambina osserva sua madre compiere immensi sacrifici per la famiglia, giustificare un marito ragazzino, trattare suo fratello in modo diverso da lei. Osserva e in qualche modo accetta e replica la condizione di donna destinata a vegetare in un angolo e a sacrificarsi per il bene degli altri: uomini irresponsabili, perlopiù.
Un’unica cosa riesce a sdoganarla dal suo ruolo, a sfuggire da una realtà che non si aspetta nulla di diverso da lei: veicolare buona parte delle sue energie per raggiungere un obiettivo potente, e ci riesce. Tutte le difficoltà affrontate per inseguire il suo sogno le regalano la spinta per crescere più forte e innalzare i suoi rami fino al cielo, proprio come l’albero che cresce sul cemento di Brooklyn e che lei osserva mentre legge.
Impossibile non confrontare il personaggio di Francie con Jo di Piccole donne . Le due ragazzine vivono in contesti sociali diametralmente opposti, hanno età diverse ( Jo ha 15 anni, Francie appena 11 ) e peculiarità agli antipodi ( vulcanica ed estroversa la prima, riflessiva e timida l’altra ). Eppure inseguono entrambe lo stesso sogno: diventare scrittrici in un mondo ancora invischiato nel pregiudizio che una donna – soprattutto quando la sua penna non si crogiola in temi spalmati di cuoricini ma racconta realtà scomode o inopportune – non possa svolgere una professione riservata agli uomini.
Combattono con armi diverse, eppure alla fine raggiungono entrambe il loro scopo. Ho tifato per loro sfegatatamente, mi sono commossa, indignata, rallegrata e infine associata alla loro soddisfazione finale. Ho riso, pianto, gridato, scritto migliaia di parole che forse nessuno avrebbe mai letto, inventato storie e raccontato vita con la mia penna. Mi sono tagliata a zero i capelli perché servivano soldi e mi sono concessa il lusso di gettare tazze di caffè nel lavello, ho accettato e concesso amore, ho ritagliato tempo e rispetto per me stessa, ho lottato e ottenuto.
Cosa mi ha regalato questo libro quando ero piccola
Concetti come l’importanza della famiglia, la possibilità di riscattarsi da una situazione difficile, il valore dell’istruzione come opportunità per un futuro migliore, la speranza (spesso disillusa dall’età adulta, purtroppo) che impegnandosi al massimo si può raggiungere l’impossibile, o almeno provarci, la sensazione che le donne non fossero così deboli come mi raccontavano tutti.
E il senso della dignità, quello è stato il regalo più grande che potesse farmi. C’è enorme dignità in questa famiglia, e un episodio su tutti racconta come. La scena si svolge in cucina, dove ci sono Francie, la sua mamma e sua zia. La bambina si alza, prende la tazza di surrogato di caffè che la mamma le ha appena offerto e la svuota nell’acquaio perché non le piace. Sua madre lo sa, eppure continua a somministrarle la sua parte. La zia scandalizzata si chiede il perché di quello spreco, in una famiglia così povera certi lussi non sono consentiti. La replica pacata della mamma di Francie è che anche i poveri devono avere la sensazione di poter sprecare qualcosa, rafforza la loro dignità. Quando possono, devono farlo. Francie continuerà ad avere il suo caffè, poco importa se lo berrà oppure se continuerà a gettarlo nel lavello, le spetta in quanto appartenente alla famiglia.
Come ho letto questo libro da grande
Con maggiore disincanto per alcuni principi quali l’amore incondizionato per i propri genitori e la famiglia e con tanta tenerezza per Francie, con un orgoglio da madre e da donna, con l’ammirazione per chi – come lei – ha carattere a sufficienza per scardinarsi dall’ignoranza ed emergere nella povertà umana e sociale che la circondano.
Ho provato nostalgia per il suo candore e la genuinità di valutare persone e fatti, mi sono ricordata di quando – da piccola – prendevo un libro e mi isolavo in una nicchia ricavata nella porta finestra della camera dei miei. Esattamente come Francie, anche se davanti ai miei occhi non c’erano alberi con le radici affondate nel cemento. Mi sedevo per terra, a due passi da me c’era un termosifone a scaldarmi e pagine in cui potevo essere qualsiasi cosa, senza capire ancora bene cosa sarei diventata da grande. E ancora non lo so, a raccontarvela proprio tutta, anche se ho cercato a lungo la risposta in quei libri.
Un albero cresce a Brooklyn è a mio avviso meraviglioso, ne consiglio la (prima) lettura a partire dagli 11/12 anni.
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Ripensando alle madri forti della letteratura e sempre nell’ ambito di famiglie immigrate, posso consigliare anche un altro titolo? Di kathryn forbes “mama’s bank account” (in italiano era “io e la mamma” ma non ho più quell’edizione purtroppo) una serie di racconti di tono piu lieve ma profondo in una famiglia norvegese. Per rilassarsi dopo Betty Smith . Buona lettura a tutti 🙂
Anche io mi ricordo il caffè nel lavandino. Ma la cosa che mi colpì di piu la prima volta fu l’ imposizione della madre sulla scuola. Potendone mandare solo uno, obbliga il figlio maschio che non voleva andarci sapendo che tanto Frances avrebbe trovato un modo per studiare prima o poi. Da grande ho scoperto che mi ricordavo solo metà libro! La prima in cui in sono ancora bambini e nonostante tutto c’è serenità per i fratelli. E poi l’ingiustizia di poter mandare solo 1 figlio alla scuola superiore! Per dirla tutta la prima volta non mi era piaciuto poi tanto. Forse ero troppo piccola.
No, Liz. Credo semplicemente che tu fossi troppo indignata per quell’ingiustizia. Nella recensione ribadisco più volte come Francie debba combattere contro gli stereotipi e quanto emerga la sua forza nel romanzo. Francie la trova proprio nelle discriminazioni che subisce, dalla madre in primis. In ogni caso, un libro è un contenitore di emozioni. Quando togli il coperchio, non sai mai quale vai a pescare per prima o quale ti colpirà di più, in negativo o positivo. A me è piaciuto da impazzire, ma io non sono ovviamente la totalità dei lettori.