Comunque la si pensi, qualunque sia la nostra fede o non fede religiosa, qualunque siano le nostre idee in proposito, nessuno potrà negare che nel 1978 l’Italia ha compiuto uno dei suoi momenti di svolta culturale.
Il percorso che aveva portato il nostro Paese dal mondo rurale a quello del boom economico, doveva sfociare in grandi e sofferte scelte legislative che prendessero atto che si entrava in un’altra epoca. Il decennio degli anni ’70 è stato uno dei più intensi in quanto a produzione normativa che esprimeva una nuova società: la legge sull’aborto, quella sul divorzio, ma anche lo statuto dei lavoratori e così via.
Fino al 1975, in Italia l’aborto era sostanzialmente illegale, in qualsiasi forma e per qualsiasi motivazione. O l’aborto era spontaneo, oppure era reato, sia per la madre che per il personale medico o paramedico (o altro!) che lo praticavano.
Ovviamente l’escamotage più evidente era quello di far passare tutto per aborto spontaneo, con pratiche clandestine (più o meno, ovviamente) ai limiti del disumano.
Altra possibilità, sviluppata dalla giurisprudenza, era quella di ritenere l’aborto, in alcuni casi, giustificato dallo “stato di necessità“, previsto dall’articolo 54 del codice penale (come causa scriminante: che rende non punibile un comportamento altrimenti illecito), ritenendo così non punibile l’intervento abortivo reso necessario per salvare la vita della gestante e, in taluni casi, anche per ragioni di salute, purché gravi. Era comunque una situazione che prevedeva l’intervento dell’autorità giudiziaria e, quanto meno, un’indagine (se non un processo).
Nel 1975 la Corte Costituzionale pronunciò una sentenza storica (n.27), a dimostrazione che quasi sempre è la giurisprudenza che si adegua ai tempi ed alla società, prima che le leggi si mettano al passo. Un passaggio di questa sentenza sanciva per la prima volta che ““[…] non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare“.
Questo concetto, che tanto avrebbe dato da discutere negli anni successivi, apriva la strada alla possibilità di considerare non più reato l’aborto terapeutico.
Nel 1978, dopo un intenso dibattito politico sì, ma essenzialmente culturale (come allora lo fu la politica), i tempi erano maturi per la legge n.194, che porta il titolo “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”
La LEGGE n.194/1978, per estrema schematizzazione, prevede tre momenti della gestazione che sono sottoposti a regime giuridico diverso quanto alla possibilità di interrompere la gravidanza.
Il periodo dall’inizio della gravidanza al 90° giorno è quello in cui l’aborto volontario è consentito comunque. La formula legislativa (art. 4) è molto ampia ed anche se si è mantenuto il riferimento ad un motivo di salute fisica o psichica della donna, sostanzialmente è la volontà della donna a prevalere.
Anche la comunicazione da parte del personale sanitario cui ci si rivolge al padre del concepito, possono essere effettuate solo su autorizzazione della gestante.
Rivolgendosi ai consultori (di cui si prospettava nella legge l’istituzione e che oggi non godono di “buona salute” su gran parte del territorio), al medico di base o ad una qualsiasi struttura ospedaliera, si ha diritto ad accedere gratutitamente all’interruzione di gravidanza.
Nel periodo che va dal 4° mese di gravidanza alla possibilità di vita autonoma del feto, invece, l’aborto è legittimo solo se terapeutico. Anche in questo caso la formula è ampia (artt. 6 e 7): ci si riferisce anche alla necessità terapeutica di salvaguardare la salute psichica della donna o a motivi c.d. “eugenetici”, cioè evitare la nascita di un bambino con gravi malattie. Comunque è necessaria una certificazione medica che consenta il ricorso all’interruzione.
C’è poi il periodo (piuttosto breve) compreso tra il momento di vitalità autonoma del nascituro e la nascita, in cui l’interruzione è consentita solo per un pericolo di vita della donna (è la l’ipotesi che consente ai medici di operare una scelta, in caso di gravi complicazioni nel momento della nascita o di poco precedente, su chi salvare tra madre e figlio).
Ovviamente dall’inizio del 4° mese di gravidanza, si apre tutto un territorio in cui continuano a proliferare gli aborti clandestini. Negarlo è chiudere gli occhi all’evidenza.
Numerosissime le inchieste giornalistiche sull’esistenza di medici e strutture sanitarie, anche clandestine, disponibili ad offrire questo tipo di “prestazione”, del tutto illegale.
Gli articoli da 17 a 20 della L. 194/78 sanzionano proprio i reati di “procurato aborto“, distinguendo tra quello colposo (per esempio derivato da un trattamento medico errato); a quello doloso provocato senza consenso della donna (come per esempio conseguenza di percosse); a quello che prevede la violazione delle norme della legge, quindi su richiesta della donna (che viene punita in modo piuttosto lieve rispetto a chi pratica l’aborto).
Con l’entrata nel circuito farmaceutico italiano del farmaco chiamato RU 486, la così detta pillola abortiva, si è creata una polemica o un allarmismo piuttosto sterile, in quanto risolvibile con una semplice lettura delle norme.
La RU 486 non può in alcun modo considerarsi contraria alla legge 194/78, in quanto in nessuna norma si indica con quale tipo di procedura debba attuarsi l’interruzione di gravidanza. Nella legge non si menziona neanche se il trattamento abortivo debba essere medico o chirurgico.
Anzi, nell’art. 15, si specifica che le regioni debbono promuovere l’aggiornamento del personale e l’applicazione nelle strutture sanitarie delle tecniche più moderne, innovative e sicure per la salute delle donne. In questo, dunque, la legge 194 è stata lungimirante: non solo l’uso della RU 486 non si oppone alla legge, ma anzi potrebbe considerarsi promosso da questa, laddove fosse certo che si tratti del metodo meno invasivo e più sicuro.
Barbara, credo ogni tua parlola. Allo stesso modo, ti prego di credere che conosco personalmente donne a cui è stato dato semplicemente un foglio, che è il consenso informato da firmare. Un foglio tra i tanti che ti danno in gravidanza: ci sono scritte tante cose, ma poche le leggono con attenzione e poche fanno domande. Un firma e via, si va con l’esame.
Conosco personalmente 2 donne a cui, con l’amniocentesi, è stata diagnosticata la sindrome di Down: una ha abortito, l’altra no. In entrambi i casi si è trattato di un errore. Una ha saputo che il bimbo abortito era sano solo perché è un medico figlia di medico e ha insistito per sapere. L’altra era pronta ad accogliere un figlio Down, ma alla nascita ha scoperto che era sano. Vuoi che ti dica chi è più felice oggi?
Di più: ho il sospetto che la seconda sarebbe più felice comunque, anche se la sua diagnosi non fosse stata – fortunatamente – errata.
@barbara: in effetti funziona come dici tu.
Io ho avuto la mia bimba a 30 anni. Ho fatto la villo perchè la prima aveva avuto una malattia rara e letale.
Le cose sono andate così.Abbiamo cercato noi un centro diagnosi prenatale, ci avevano consigliato la mangiagalli, ma da palermo era difficoltoso…abbiamo scelto l’OSPEDALE VINCENZO CERVELLO DI PALERMO.
Ne fanno tantissime a causa della Talassemia.
Ci hanno detto che avevamo diritto solo alla diagnosi di cui eravamo portatori. Che il cariotipo e il sesso avremmo dovuto farli in un centro privato se volevamo, ma questo significava prelevare piu campione, uno doveva andare a brescia e uno in laboratorio privato a Palermo. Questo aumentava i rischi.Abbiamo detto di no. Ci hanno dato il “papello” da leggere con un bel pò di tempo in anticipo, e ci hanno tenuti due ore per capire se valeva la pena fare altri esami genetici.Io posso dire di essere stata ben informata…ma ovviamente le esperienze sono l’una diversa dalle altre.
Ah, scusate, sembrera’ una cretinata ma io ho apprezzato molto: durante la visita genetica, visto che nelle nostre famiglie non c’erano casi di rilevanza, ci hanno chiesto perche’ volevamo fare l’amniocentesi. Abbiamo detto l’eta’, io avevo 36 anni.
Stavo rileggendo tutti i commenti e mi e’ saltata agli occhi questa frase di D. (Non ce l’ho con te, giuro!!): “Il test è l’anticamera dell’amniocentesi. Esame in cui molto spesso si hanno il triplo, il quadruplo, di possibilità di danneggiare il bambino rispetto alle probabilità che il bambino sia malformato. Ma nessuno ti dice di fermarti a riflettere. Ti fanno firmare una liberatoria e via.”
Mi sento in dovere di difendere chi l’amnio l’ha fatta a me (Policlinico Umberto I, Roma). Mi hanno detto quali test facevano e quali no, spiegandomi anche che la legge italiana prevede che tua sia esente dal pagamento del ticket oltre i 35 anni solo per alcuni test (fondamentalmente sindrome di Down e sesso del bambino), hanno calcolato la probabilita’ di avere un figlio Down alla mia eta’ e quella di avere problemi per l’amniocentesi (infezioni, danni alla placenta etc fino all’aborto), mi hanno dato istruzioni su cosa fare per minimizzare questi rischi. Questo un paio di settimane prima del prelievo, contestualmente alla visita genetica (una chiaccherata sulla mia famiglia e quella di mio marito con riferimenti a malattie geneticamente trasmissibili). Ci hanno mandato a casa con un bel fascicolone da leggere e su cui riflettere, e ci hanno detto che prima del prelievo avremmo dovuto firmare la liberatoria (che appunto ti danno solo quel giorno). Al momento della firma mi hanno fatto delle domande per assicurarsi che avessi letto l’informativa. A onor di cronaca.
Con molta calma, ma sono riuscita finalmente a leggere tutta la discussione. Dal mio punto di vista credo che non sia una scelta semplice, in un caso o nell’altro, e concordo con Daniela e Lanterna per una cosa. Con la seconda figlia, gli esami fatti in gravidanza e il pensiero che avesse qualche problema erano molto più fonte di preoccupazione che non per la prima. Perché non pensi più solo al bimbo che deve nascere, o a te stessa, ma pensi a quella che potrebbe essere la vita per il bimbo che è nato già.
Grazie a tutte per le vostre idee, e per la discussione intensa, ma anche molto pacata, che ne è uscita fuori. Molto spesso di fronte a questi temi ne escono fuori discussioni conflittuali e poco costruttive, mentre qui, come sempre, è andata diversamente. Complimenti davvero.
Scusami, D., ti ho frainteso completamente. Perdonami, avevo capito che quando parli dell'”altra vita” ti riferissi a quella ultraterrena, non a quella del bambino. Ti prego, rileggi il mio commento in quest’ottica per favore e accetta le mie scuse.
Io lo so che c’e’ un’altra vita che si sta formando e crescendo, prendo seriamente in considerazione questo fatto quando cerco di formarmi un’opinione in materia. Infatti una opinione seria e convinta non ce l’ho (come diceva qualcuno prima, il fatto che sia legale non vuol dire che sia giusto). Quello di cui sono convinta, invece, e’ che finche’ non ho una mia opinione sono felice che una via d’uscita legale ci sia. Vorrei sottolineare anche che mentre cio’ che e’ legale lo deve essere per tutti, cio’ che e’ giusto dipende da ciascuno di noi. Se pensi che abortire sia sbagliato, nessuno ti costringe a farlo. Puoi benissimo portare avanti una gravidanza non proprio desiderata o con complicazioni mediche per il futuro se la tua coscienza non ti da’ alternative. Di piu’, la legge italiana ti da’ anche il diritto di partorire e non riconoscere il bambino in ospedale (non vorrei aprire qui un altro vaso di Pandora…). Io sinceramente non mi sento di giudicare chi non se la sente di prendersi un impegno del genere, ho visto (per mia fortuna, poche) situazioni talmente pesanti che comprendo come si possa decidere una cosa cosi’ difficile. Perche’ ricordiamoci anche che chi fa un aborto terapeutico il bambino lo voleva, e quindi gia’ soffre due volte.
A chi chiedeva chi ci da’ il diritto di scegliere per nostro figlio se sia meglio vivere una vita difficile o non vivere per niente, vorrei ricordare che in quanto genitori prendiamo tutti i giorni decisioni di vita per i nostri figli. Alcune banali, altre piu’ difficili, altre che potrebbero venirci seriamente rinfacciate da loro una volta cresciuti, alcune addirittura irreversibili. Anzi, e’ proprio questa la parte difficile dell’essere genitori: cambiare pannolini, alzarsi 15 volte per notte e correre dalla mattina alla sera appresso a loro e fare gli equilibristi del tempo e delle forze sono bazzeccole in confronto. Se certe decisioni non toccano a noi, a chi toccano? Possiamo benissimo pensare che c’e’ qualcuno al di sopra di noi che sa benissimo quel che fa e la decisione l’ha gia’ presa, possiamo pensare che la decisione non spetti a noi e possiamo solo lasciar fare alle cose il proprio corso, ma sono opinioni e io le rispetto al 100% (non mi troverete MAI a criticare chi decide di portare avanti una gravidanza e crescere un figlio in situazioni difficili, al massimo sentirete i miei complimenti), e la mia e’ che certe decisioni spettano a me. Se decido di far nascere un figlio Down, sono io che lo decido. Di certo, qualunque sara’ la mia scelta, ne portero’ avanti le conseguenze.
Daniela, mi è piaciuta molto la tua riflessione.
“…tutto quello che riesco a pensare è che è sempre difficile, che c’è sempre un perchè. E che è giusta una legge sull’aborto, ma vorrei che per un po’ si spostasse l’attenzione sul contorno”.
Grazie
@Daniela:i dubbi che hai tu credo che più o meno siano quelli di tutte, perciò credo che sia impossibile esprimersi in maniera intransigente, la scelta è di chi, in un modo o nell’sltro ne paga le conseguenze.
Solo un’informazione tecnica:i centri diagnosi prenatale più all’avanguardia fanno la villo anche a 9 settimane(quelli all’avnguardia, in genere sono pubblici).
Tuttavia questi tempi si usano solo in caso si sappia già di poter trasmettere patologiè ereditarie.Un abbraccio
Leggo e rileggo. Che sia un argomento difficile è ovvio, e penso sia anche ovvio che nessuno avrà mai ragione. Se cerchi una gravidanza e la vivi senza problemi la strada è quella ed è facile. Ma appena arriva un ma, le cose si sfumano, e non c’è LA soluzione. Io non ho ancora, nonostante ci pensi da molto, un’opinione mia.
Ho cercato la prima figlia con tanto desiderio, al primo colloquio della gravidanza il gine mi ha parlato di tritest, consigliandomi vivamente di farlo. Ne ho parlato con mio marito, siamo giunti alla conclusione che qualunque cosa sarebbe uscita fuori da quello (e da eventuali esami dopo) nostra figlia sarebbe nata, quindi tanto vale non rovinarsi la gravidanza. Così non abbiamo fatto nessun esame. Tornando indietro cambierei molte cose, come scritto altrove considererei quegli esami non solo nell’ottica del “sapere se è sano e decidere se farlo nascere” ma anche come linea preventiva per possibili cure. Ma ero giovane, forse un po’ incosciente, e fortunatamente… beh, fortunata visto che è stato tutto perfetto.
Con la seconda il problema era diverso: c’era Sara! E l’eventualità di una malattia avrebbe pesato anche su di lei, ora perché un fratello già toglie molto al primogenito in quantità di attenzione, una malattia cambia una famiglia. Non parlo solo della sindrome di Down, ma di malattie peggiori che ho visto, e che assorbono tutte le energie possibili. Abbiamo deciso di fare almeno il test integrato e poi vedere. Al colloquio preparatorio (qui fanno una specie di lezione in cui spiegano le varie malattie individuabili, come funziona il test, come si usano i risultati, come funzionano gli altri esami più invasivi, ecc..) c’è una sola frase che mi ha colpito, ed è stato capire che l’aborto terapeutico avviene dopo il terzo mese (ovviamente, visto che se non sbaglio villo e amnio si fanno più o meno in quel periodo) col supporto di una psicologa (che deve decretare che la nascita del bambino sarebbe un grave danno per la madre) e si tratta a tutti gli effetti di partorire un bambino morto. E’ ovvio, mi bastava pensarci per saperlo, ma non avendoci mai pensato non me l’ero mai immaginato. E l’unica cosa che mi sono detta è “non ce la farei mai”. Abbiamo fatto il test ma solo per sapere prima se c’erano problemi, per prepararci meglio nel caso, anche con Sara.
Coraggio? No, non credo. Coraggio è chi fa una scelta con la forza del cuore, per amore, non per paura del contro. Io ho scelto così perché l’idea di abortire mi faceva davvero, non paura, ma un senso di disperazione. So che ci vuole coraggio in ogni scelta. Nella scelta di portare avanti una gravidanza, se ci sono malattie e deformazioni, perché il percorso non è facile, nessuno ti aiuta davvero, ho visto madri sole, abbandonare il lavoro, lottare per l’aiuto a scuola, rassegnarsi al minimo che viene dato, la madre di un bambino che a 12 anni pesava la bellezza di 40 kg dovergli fare il bagno da sola, alzarlo, svestirlo, metterlo nella vasca, perché disabile al 100%, perché l’assistenza c’è solo poche ore al giorno, ecc. E ci va anche coraggio ad abortire, sapendo che non si avrebbe la forza di farlo, o la possibilità. E non immagino che coraggio ci vada a 14/15 anni, tra la scelta di mettere la parola fine a una vita e quella di provarci, sapendo che non si hanno i mezzi. Credo che in tutti i casi, ci sia paura di una o dell’altra cosa.
Mi sto dilungando, volevo solo dire che io non ho conoscenze né preparazione in campo, sicuramente ci sono errori nei termini che ho usato, non parlo con pretese scientifiche o mediche. Ma temo che ci siano difficoltà grandissime in ogni scelta, in questi casi. E in quei pochi casi in cui vince la leggerezza (purtroppo credo che esistano, così come credo anche che siano pochissimi) temo che la vita dietro sia difficile. HO il caso di una zia di parenti, ricoverata pochi giorni fa per il terzo tentativo di suicidio, ormai sessantenne, 7 figli vivi, due morti da ragazzi (quindi 9 parti), due aborti spontanei in mezzo, 3 aborti per scelta dopo, un marito padrone che qualche volta ubriaco la picchiava, ma soprattutto una di quelle famiglie di una volta, senza istruzione, senza lavoro, a pesare tanta, troppa ignoranza… e i figli in collegio perché loro non ce la facevano, e loro a vivere con l’assistenza sociale, insomma, un mondo che a me sembra irreale e che invece c’è ancora qui, a 20 km da casa mia…
Insomma, tutto quello che riesco a pensare è che è sempre difficile, che c’è sempre un perchè. E che è giusta una legge sull’aborto, ma vorrei che per un po’ si spostasse l’attenzione sul “contorno”. Cosa si fa quando una mamma decide di abortire? C’è una rete di sostegno, qualcuno che valuti per lei i perché e la aiuti a cercare le soluzioni diverse? E soprattutto, per chi non la fa questa scelta, chi c’è dopo? Se mia figlia fosse nata malata, chi ci sarebbe stato con me? Se fossi rimasta incinta a 15 anni, chi mi avrebbe aiutata? Perché tutti si esprimono sull’aborto, ma poi una volta fatta la scelta c’è di nuovo solitudine. Della madre che non può avere il part time e non sa che farne, di quella che il lavoro non lo trova perché ha i figli, o peggio lo perde, di quella col figlio malato la cui vita diventa solo più una ricerca di assistenza, una corsa tra uffici, un cercare informazioni…
C’è solitudine sempre, se le cose non vanno bene. E il problema è tutto qui, se le difficoltà dopo fossero minori, sicuramente l’aborto non diventerebbe la scelta “meno peggio”.
Maggie, hai ragione nell’evidenziare che stiamo mantenendo toni sereni e costruttivi pur nella differenza di idee. Per questo sono molto orgogliosa dei nostri lettori (stavolta dovrei dire lettrici, perchè uomini non ne sono intervenuti, ma non dispero…).
COme ho già detto, se D. non fosse intervenuta spontaneamente, le avrei chiesto io di esporre la sua opinione. Sono certa che il suo, come quello di tutte le altre, sono stati contributi essenziali.
La posizione di D. non è facile da portare avanti fino in fondo con convinzione: potremmo dire che non è “popolare” e non è comoda.
Ma se qui avessimo voluto essere popolari, avremmo evitato un argomento del genere da portare avanti per un intero mese…
Fin quando le opinioni saranno espresse con tanta apertura mentale, qui ci sarà posto per tutti.
Lasciatevi dire che sono fiera di voi!
Io voglio ringraziare D. prima di tutto perché si è presentata così com’è, e non dietro un anonimato come di questi tempi si vede spesso in giro, soprattutto quando il proprio parere non coincide completamente con il post scritto. Grazie perchè assieme alle sue riflessioni ci apre il suo blog che è anche la sua vita privata, e non è cosa da poco mettersi in discussione sapendo di non raccogliere i consensi di tutti su un tema così caldo.
Mi sembra, e ne sono piacevolmente sorpresa, che anche se l’argomento sia delicato, non si siano raggiunti toni generali di poco rispetto.
E penso che D. non sia stata irrispettosa, anzi, ha presentato la questione sotto diversi punti di vista e ricordando sempre che non colpevolizza le persone che fanno una certa scelta ma questiona su un principio grande. Quello della Vita.
Tra l’altro mi pare che, non nascondendo la sua fede, non riporti argomentazioni che si rifacciano esclusivamente a questa ma ci presenti i suoi ragionamenti proponendo molti spunti di riflessione che possono essere condivisi da tutti. Ed anch’io penso che la questione della Vita non sia una questione di fede ma di valori. E credo che sia riduttivo ritenere che una persona pensi in un certo modo perché crede.
Alla fine cosa vuol dire rispettare? non credo significhi ritenere che ognuno sia diverso e per questo la pensa come vuole tirandosi in qualche modo fuori dalla questione. Se fosse così non saremmo qui a presentare i nostri punti di vista. Penso voglia dire comprendere anche senza condividere.
Non ho la sensazione che si stiano imponendo dei punti di vista, piuttosto vedo che si stanno presentando varie argomentazioni difendendole come è giusto che sia.
Ritengo, come D., che si debba lavorare molto, a livello di mentalità sociale, non solo difendendo la possibilità di poter abortire ma anche sulla scelta di non abortire. E credo che sia assolutamente azzeccata la sua riflessione sul fatto che sia molto difficile trovare persone che si siano pentite di non aver abortito. Non succede lo stesso nella situazione contraria. Un mio professore diceva sempre “in dubio pro malo”, nel caso di dubbio agisci come se l’ipotesi corretta si trovasse nel peggiore pronostico piuttosto che nel migliore. E in questo caso il “peggiore” è pensare che il feto sia vita fin dall’inizio. E se veramente lo è allora la questione acquista toni importanti che scavalcano la possibilità di poter decidere per noi stessi siccome entra in gioco un’altra persona.
Se non fosse proprio perché prendendo la decisione di abortire di fatto ci si assume anche la responsabilità di parlare (o di credere di parlare) in nome di qualcuno che non può farlo, la decisione non sarebbe così dolorosa. Eppure bisogna prenderla. E io personalmente credo che decidere di NON abortire in caso di gravi malformazioni sia una decisione altrettanto difficile. In entrambi i casi si decide anche per l’altro, ma qualcuno questa responsabilità se la deve assumere.
A suo tempo vi fu un acceso dibattito sull’aborto tra giuliano ferrara e anita pallara, un giovane donna affetta da una rara malattia genetica.Credo che il contributo valga la pena rileggere il contributo di anita.
Il suo blog: http://anita-nonewsgoodnews.blogspot.com/2010/05/nel-passato.html
@ Lorenza:
Io non dò per scontato che ci sia qualcosa oltre al visibile (cioè, lo credo, ma so che è appunto oggetto di fede), dò per scontato che esistano due vite in ballo quando si parla di aborto.
Se non fosse così, perché farci tutte quante tante domande?
Per quanto riguarda il libero arbitrio, mi scuso per un piccolo o.t.: se si crede in Dio, o meglio se si è cristiani (perché quando dici “sono credente” potresti intendere altro), si sa che da Dio vengono il Decalogo E il libero arbitrio. Uno senza l’altro è una menomazione. Di più, il libero arbitrio biblico è sempre stato inteso come libertà per il bene. L’errore è certamente possibile, fa anzi parte della condizione umana post-caduta, ma non è ontologicamente equivalente al bene. Da qui nasce la necessità di non giudicare (il giudizio è di Dio, che conosce i cuori e le menti), ma anche quella di distinguere il bene dal male. In questa discussione sono stata attenta a non esprimere giudizio personali (che non mi competono), ma a proporre gli argomenti a favore di quello che ritengo in tutta onestà un bene per entrambi, la madre e il figlio.
@ Serena (rispondo qui ad alcune riflessioni che hai scritto in un post “parallelo” a questo): siamo sicuri che sia meglio non nascere piuttosto che essere figli malati, poveri e/o poco amati?
A me queste vite, paradossalmente, paiono ancora più preziose. Non voglio fare l’apologia della malattia, della povertà o dell’abbandono: voglio solo dire che le vite non hanno un valore specifico in relazione alle fortune che godono. Molti dicono “meglio il niente”, ma meglio per chi? Per noi che non dobbiamo vedere, o per chi non deve vivere? Non è una domanda retorica, è una domanda a cui faccio fatica io stessa a rispondere.
Se mia madre avesse abortito oggi non sarei qui. Scusate, ma feto, embrione, per me sono parole senza senso. Sono incinta=c’è una vita dentro di me. Per il resto credo che la legge dia alle donne la possibilità di abortire solo perchè altrimenti sarebbe peggio. Questo non vuol dire che sia giusto, è solo legale farlo.
Idealmente sono contraria all’aborto che non sia terapeutico, ma credo che ognuno di noi prenda la decisione di abortire in base a profonde riflessioni. Ci sono donne che abortiscono per il bene dei figli che ci sono già, perchè più di quelli che hanno non si potrebbero permettere. Ci sono donne che abortiscono perchè sono sole ed hanno paura. Ci sono mille motivi, mille storie. Mi rifiuto di giudicare, nemmeno io so con certezza cosa farei. Credo solo che sia una decisione terribile e rispetto chi l’ha dovuta prendere.
…Anche se conosco chi l’ha presa a cuor leggero, un rapporto occasionale, non voglio il bambino e via. Ci sono donne anche così. Purtroppo.