L’aborto in Italia: dalla 194 alla RU 486

Comunque la si pensi, qualunque sia la nostra fede o non fede religiosa, qualunque siano le nostre idee in proposito, nessuno potrà negare che nel 1978 l’Italia ha compiuto uno dei suoi momenti di svolta culturale.
Il percorso che aveva portato il nostro Paese dal mondo rurale a quello del boom economico, doveva sfociare in grandi e sofferte scelte legislative che prendessero atto che si entrava in un’altra epoca. Il decennio degli anni ’70 è stato uno dei più intensi in quanto a produzione normativa che esprimeva una nuova società: la legge sull’aborto, quella sul divorzio, ma anche lo statuto dei lavoratori e così via.

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Fino al 1975, in Italia l’aborto era sostanzialmente illegale, in qualsiasi forma e per qualsiasi motivazione. O l’aborto era spontaneo, oppure era reato, sia per la madre che per il personale medico o paramedico (o altro!) che lo praticavano.
Ovviamente l’escamotage più evidente era quello di far passare tutto per aborto spontaneo, con pratiche clandestine (più o meno, ovviamente) ai limiti del disumano.
Altra possibilità, sviluppata dalla giurisprudenza, era quella di ritenere l’aborto, in alcuni casi, giustificato dallo “stato di necessità“, previsto dall’articolo 54 del codice penale (come causa scriminante: che rende non punibile un comportamento altrimenti illecito), ritenendo così non punibile l’intervento abortivo reso necessario per salvare la vita della gestante e, in taluni casi, anche per ragioni di salute, purché gravi. Era comunque una situazione che prevedeva l’intervento dell’autorità giudiziaria e, quanto meno, un’indagine (se non un processo).

Nel 1975 la Corte Costituzionale pronunciò una sentenza storica (n.27), a dimostrazione che quasi sempre è la giurisprudenza che si adegua ai tempi ed alla società, prima che le leggi si mettano al passo. Un passaggio di questa sentenza sanciva per la prima volta che ““[…] non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare“.
Questo concetto, che tanto avrebbe dato da discutere negli anni successivi, apriva la strada alla possibilità di considerare non più reato l’aborto terapeutico.

Nel 1978, dopo un intenso dibattito politico sì, ma essenzialmente culturale (come allora lo fu la politica), i tempi erano maturi per la legge n.194, che porta il titolo “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza

La LEGGE n.194/1978, per estrema schematizzazione, prevede tre momenti della gestazione che sono sottoposti a regime giuridico diverso quanto alla possibilità di interrompere la gravidanza.
Il periodo dall’inizio della gravidanza al 90° giorno è quello in cui l’aborto volontario è consentito comunque. La formula legislativa (art. 4) è molto ampia ed anche se si è mantenuto il riferimento ad un motivo di salute fisica o psichica della donna, sostanzialmente è la volontà della donna a prevalere.
Anche la comunicazione da parte del personale sanitario cui ci si rivolge al padre del concepito, possono essere effettuate solo su autorizzazione della gestante.
Rivolgendosi ai consultori (di cui si prospettava nella legge l’istituzione e che oggi non godono di “buona salute” su gran parte del territorio), al medico di base o ad una qualsiasi struttura ospedaliera, si ha diritto ad accedere gratutitamente all’interruzione di gravidanza.
Nel periodo che va dal 4° mese di gravidanza alla possibilità di vita autonoma del feto, invece, l’aborto è legittimo solo se terapeutico. Anche in questo caso la formula è ampia (artt. 6 e 7): ci si riferisce anche alla necessità terapeutica di salvaguardare la salute psichica della donna o a motivi c.d. “eugenetici”, cioè evitare la nascita di un bambino con gravi malattie. Comunque è necessaria una certificazione medica che consenta il ricorso all’interruzione.
C’è poi il periodo (piuttosto breve) compreso tra il momento di vitalità autonoma del nascituro e la nascita, in cui l’interruzione è consentita solo per un pericolo di vita della donna (è la l’ipotesi che consente ai medici di operare una scelta, in caso di gravi complicazioni nel momento della nascita o di poco precedente, su chi salvare tra madre e figlio).

Ovviamente dall’inizio del 4° mese di gravidanza, si apre tutto un territorio in cui continuano a proliferare gli aborti clandestini. Negarlo è chiudere gli occhi all’evidenza.
Numerosissime le inchieste giornalistiche sull’esistenza di medici e strutture sanitarie, anche clandestine, disponibili ad offrire questo tipo di “prestazione”, del tutto illegale.
Gli articoli da 17 a 20 della L. 194/78 sanzionano proprio i reati di “procurato aborto“, distinguendo tra quello colposo (per esempio derivato da un trattamento medico errato); a quello doloso provocato senza consenso della donna (come per esempio conseguenza di percosse); a quello che prevede la violazione delle norme della legge, quindi su richiesta della donna (che viene punita in modo piuttosto lieve rispetto a chi pratica l’aborto).

Con l’entrata nel circuito farmaceutico italiano del farmaco chiamato RU 486, la così detta pillola abortiva, si è creata una polemica o un allarmismo piuttosto sterile, in quanto risolvibile con una semplice lettura delle norme.
La RU 486 non può in alcun modo considerarsi contraria alla legge 194/78, in quanto in nessuna norma si indica con quale tipo di procedura debba attuarsi l’interruzione di gravidanza. Nella legge non si menziona neanche se il trattamento abortivo debba essere medico o chirurgico.
Anzi, nell’art. 15, si specifica che le regioni debbono promuovere l’aggiornamento del personale e l’applicazione nelle strutture sanitarie delle tecniche più moderne, innovative e sicure per la salute delle donne. In questo, dunque, la legge 194 è stata lungimirante: non solo l’uso della RU 486 non si oppone alla legge, ma anzi potrebbe considerarsi promosso da questa, laddove fosse certo che si tratti del metodo meno invasivo e più sicuro.

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66 thoughts on “L’aborto in Italia: dalla 194 alla RU 486”

  1. “finchè quella vita vive dentro me è come se fossi io stessa,respira perchè io respiro, mangia perchè io mangio, e io ho facolta di decidere se debba venire al mondo, e quindi se partorire o meno,D.”

    Mi sembra insufficiente, anche se vero, questo modo di vedere. Certo, l’inizio della vita avviene con un corpo in un altro corpo, questo rende tutto più difficile. Ma ci sono, inascoltate, anche le ragioni dell’altra vita. Quella che non può esprimersi, non può accampare ragioni se non la propria esistenza, quella che non può neppure respirare in autonomia, ma è pure una vita, un essere umano in costruzione, qualcosa che c’è. Ci sono studi che dimostrano come il figlio interagisca con la madre già nelle primissime settimane di vita. Si tratta di un’interazione involontaria e su molti livelli, compresi quello chimico e ormonale (ovviamente), ma che influenzano entrambi. E’ possibile eliminarlo con un colpo di spugna?
    Io so che la legge dice di sì, e anche se non lo dicesse la legge qualche donna si risponderebbe ugualmente di sì.
    Ritengo che una vera percezione delle ragioni della vita dovrebbero far propendere per il no. O almeno per il no nella stragrande maggioranza della circostanza in cui si risponde sì.
    Anche il fatto che il bambino dipenda dalla madre è in rapida evoluzione: con le moderne tecnologie rianimative ci possiamo trovare con due casi uguali e opposti.
    Da un lato un forte prematuro, che viene rianimato e lotta per mesi tra la vita e la morte. Ha genitori che fanno di tutto per ancorarlo alla vita, per aiutarlo a salvarsi, un’equipe medica tra le più specializzate, strumentazione sofisticata. (in questi giorni, su questo forum, c’è una bella discussione sulla T.I.N.).
    Dall’altro un aborto alla stessa epoca gestazionale, immaginiamolo concepito nello stesso giorno, fatto nascere nello stesso giorno. Anche questo bambino è vivo e vitale, magari a poche stanze di distanza dal primo, ma qualcuno ha già fatto scelte diverse per lui: lui non va rianimato, è solo una scocciatura in più, perché non fa certo piacere dover attendere qualche minuto per vederlo morire. Non piace a nessuno, neppure ai dottori, al personale medico. Entrambi i bambini non ce la possono fare da soli (come tanti malati, d’altronde): ma cosa dà il diritto di scegliere a favore di uno solo?
    Purtroppo quello che ho descritto succede, non è solo un’ipotesi.
    Succede anche di peggio: negli Stati Uniti esiste una pratica che si chiama “partial birth abortion”. In pratica, pura macelleria (chi è sensibile smetta ora di leggere).

    La pratica si effettua, in alcune condizioni e in alcuni stati degli USA, fino al nono mese di gravidanza (in pratica, anche il giorno prima di un parto naturale). Si induce il parto, che però non deve essere completo. L’ipocrisia vuole che un bambino vivo e sano completamente uscito dalla madre sia un soggetto giuridico con dei diritti. Invece quell’essere a metà, con la testa di fuori e i piedi ancora dentro la madre non è un essere umano, è una convenzione, un buco nero, un punto di non essere in mezzo all’essere: gli viene effettuata un’incisione sul cranio e risucchiato il cervello. Solo a questo punto vengono estratti i piedini.

    Mi direte che in Italia questo non è possibile: lo so bene, ma temo che non basti. Temo, lo ripeto, che tutte le volte che non si prendono in considerazione i diritti della parte più debole, che si è costretti a dare una definizione di vita escludendo qualcuno (il concepito prima di un certo mese, poi il prematuro nato in certe condizioni invece di altre, poi il bimbo a termine) si rischia tutti qualcosa. Si rischia di metterci in una posizione che non ci spetta rispetto alla vita e alla morte. Si rischia di veder rinegoziata all’infinito tale definizione.
    Ritengo che sia invece ragionevole mettere dei paletti, dei limiti che dipendono dalla vita stessa, che non possano essere negoziati neppure se si ottenesse una maggioranza sul punto (penso in questo caso a tutto ciò che ha a che fare con la difesa delle vite umane, così come della vita in generale sul pianeta, le sue risorse, la sua biodiversità).
    Non sono questioni che si possono decidere soltando considerando ciò che il singolo vuole o non vuole. Neppure ciò che vuole o non vuole una maggioranza. Ma ciò che l’uomo in generale può o non può fare. Per arrivare a questo punto io ritengo che ci siano dei paletti iscritti nella nostra razionalità più profonda e nel nostro cuore. Ad esempio, non sopprimere la vita umana.

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  2. Non esiste infatti, attualmente, una legge che disciplini la materia dell’accesso alle procedure di sterilizzazione su richiesta. Tra molti ginecologi è diffusa l’opinione (peraltro erronea) che gli interventi di legatura delle tube e di vasectomia costituiscano un reato o comunque una procedura al limite della legalità. Il fatto è che in Italia non esistono leggi che impediscono la sterilizzazione, ma neppure leggi che la approvino espressamente e che riconoscano ai soggetti maggiorenni e in pieno possesso delle proprie facoltà mentali il diritto di accedervi. La situazione normativa attuale è molto complessa. Da un lato, con l’abrogazione del capo del codice penale relativo ai delitti contro l’integrità della stirpe (disposta dalla legge 194/1978) è venuta a mancare la figura del delitto di procurata impotenza alla procreazione (introdotto dal legislatore del 1930 come espressione del procreazionismo autoritario proprio della dottrina politica fascista), dall’altro, però, una corrente giurisprudenziale riferendosi all’art. 5cc (che sancisce l’invalidità dell’eventuale consenso prestato dal soggetto pur maggiorenne e capace per il compimento di atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica) e agli artt. 582-583cp (che sanzionano le procurate lesioni personali, anche senza querela dell’offeso nel caso di lesioni gravissime) ha tentato di criminalizzare per questa via gli interventi di vasectomia e di legatura delle tube, considerandoli insomma come atti di lesione personale gravissima pur in presenza del consenso della persona. Tuttavia nel 1987 una sentenza della Corte di Cassazione (numero 7425) ha sancito l’erroneità di questa interpretazione affermando che il fatto di legare le tube o di eseguire una vasectomia su persona consenziente e capace non costituisce reato, perché la sterilizzazione non può essere considerata una lesione se effettuata su una persona consenziente che non desidera procreare, in quanto in questo caso la sterilizzazione, al contrario, porta alla persona il vantaggio di poter vivere più serenamente la propria sessualità. Tuttavia una sentenza della Corte di Cassazione non è sufficiente a cambiare le cose, perché un giudice può decidere di tenerne conto nell’emanazione della sua sentenza, ma non vi è obbligato, per cui i medici continuano a rischiare, sia pure in maniera molto teorica, di essere incriminati per lesioni personali, per cui è naturale che la maggior parte degli ospedali e dei ginecologi preferisca non eseguire questo tipo di interventi, se non altro per mettersi al riparo da eventuali azioni legali.
    http://www.rientrodolce.org/index.php?option=com_content&task=view&id=339&Itemid=47

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  3. E alla fine scavando, scavando, si è arrivati al nocciolo della questione, l’unico vero motivo, secondo me, del perchè si dibatte in toni colorati e senza un vincitore. Cos’è una vita?
    Ma non andrò oltre.
    Con D. condivido città, quartiere (probabilmente) e idee sui dottori. Come detto prima i dottori forse si sono dimenticati che dovrebbero essere al servizio dei pazienti e non preoccupati di una denuncia penale o del conto in banca. Che la prevenzione è per me l’unica vera arma di controllo delle nascite.
    Che dovremmo parlare di più ai nostri figli del sesso per evitare che si rimanga incinta a 15 o 13 anni. Perchè genitori si diventa in due anche a quell’età e come madre di un maschio è mio compito evitare che faccia cavolate.
    Ma con Mammadifretta condivido l’idea che rimanga una mia scelta disporre del mio corpo.
    Che io mi ricordi, ma Silvia saprà correggermi, in Italia scegliere di sottoporsi a una isterectomia volontaria non è possibile. Così come a una vasectomia totale. Mi sembra che c’entri qualcosa con “l’attentato alla specie” e ricada nel codice penale.
    Mi domando in che cosa siamo veramente liberi di scegliere. Liberi dai condizionamenti, dalle regole, dalle consuetudini. L’aborto non è che una delle non-scelte che facciamo.

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  4. finchè quella vita vive dentro me è come se fossi io stessa,respira perchè io respiro, mangia perchè io mangio, e io ho facolta di decidere se debba venire al mondo, e quindi se partorire o meno,D.

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  5. @ mammadifretta: Io non ho volutamente parlato di assassinio, così come mi rendo conto che ci sono situazioni di dolore estremo. Il dolore è un mistero. Uno dei misteri della vita. Risulta difficile imporre a un altro il carico di dolore che può sopportare. Il dolore, a vari gradi, non è separabile dalla vita stessa.
    Ma, anche se non ho parlato di assassinio, non mi voglio nascondere dietro a un dito. Ritengo che la vita sia qualcosa di assolutamente indisponibile, di cui gli uomini non possono disporre in nessun modo, o quasi, con la sola eccezione della legittima difesa.
    Non ritengo che si possa o si debba mettere su un piatto il dolore, sull’altro la vita. Questo non per una posizione “fideistica”, ma per una certezza di ragione: che le eccezioni all’intoccabilità della vita creano altre eccezioni.E infatti, per promuovere la 194, furono portati agli onori delle cronache una serie di casi estremi, veri, dolorosi, emotivamente coinvolgenti, come certamente è la tua storia, che merita il massimo rispetto. Ma il fine ultimo era – è – l’aborto libero, senza controllo, senza domande, anche senza motivo (per chi lo desidera), se non un generico “disagio psicologico”.
    A distanza di decenni, la mentalità eugenetica è permeata nella società in maniera massiccia: faccio anch’io un esempio personale. Ho 5 figli, al secondo mi consigliano un tri-test. Rifiuto l’esame perché non mi interessa l’esito (terrei il figlio comunque). Mi chiedono di firmare un foglio in cui “mi prendo la responsabilità” di questa scelta (leggi: non denuncerò nessuno, qualunque cosa succeda). Io firmo, alle gravidanze successive mi cercherò un ginecologo privato. Altre, a fronte della pressione, si fanno fare il test. Il test è l’anticamera dell’amniocentesi. Esame in cui molto spesso si hanno il triplo, il quadruplo, di possibilità di danneggiare il bambino rispetto alle probabilità che il bambino sia malformato. Ma nessuno ti dice di fermarti a riflettere. Ti fanno firmare una liberatoria e via. Per i medici è meglio un aborto indotto che una causa giudiziaria. E se l’amniocentesi denota qualche problema? Ecco pronto l’aborto “terapeutico”. Così un figlio desiderato, atteso, festeggiato, viene eliminato come merce non perfetta e a volte per malformazioni lievissime. Ci sono mamme che si sono sentite rinfacciare di aver fatto nascere un figlio con la sindrome di Down, mentre avrebbero potuto “evitare” il problema.
    Ma non è tutto: in Cina mancano all’appello milioni di donne, mai nate (il rapporto tra nati maschi e nate femmine nel mondo è sempre circa in pareggio, in Cina è pesantemente sfavorevole alle donne). In uno stato con la politica del figlio unico, le femmine valgono meno e vengono scartate alla fonte. Questa grande “libertà” delle donne è paradossalmente usata per sterminare le donne stesse.
    Il punto, il solo punto, non è se e cosa permette la legge: ma se stiamo parlando di una vita o altro. A me non interessa, in questo ambito, ciò che lo stato proibisce o permette: mi interessa ciò che si può fare o non si può fare come esseri umani. Ci sono stati che hanno permesso non solo l’aborto, ad Atene i malati si gettavano da una rupe, i pre-colombiani facevano sacrifici umani, la schiavitù è stata -ed è ancora – diffusa nel mondo. Io ritengo tutte queste cose un attacco all’uomo, alla vita, alla ragione (che ci dice che è molto facile scivolare dalla categoria dei “salvati” a quella dei “perduti”). Se stiamo parlando di vita, non è una cosa di cui l’uomo possa disporre. La vita va riconosciuta, protetta, coltivata, difesa, ma mai, mai, selezionata, approvata o rifiutata, gestita. E questo per un motivo quasi banale: nessuno vuole che altri selezionino, approvino o rifiutino, gestiscano la propria vita. Che la vita porti con sé il dolore, è un fatto certo. A volte il dolore è in una quantità enorme, e si fatica a dargli un senso. Nondimeno, ciò non ci rende padroni di qualcosa che non è nostro. E’ un dato di fatto di cui possiamo solo prendere atto. Quando la vita c’è, non si possono ammettere colpi di spugna.

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  6. caro D, ci sono malattie genetiche di cui muoiono bambini di pochi mesi, dopo aver patito sofferenze atroci.Io sono portatrice sana di una di esse, e lo è anche mio marito.
    E l’ho scoperto nel peggiore dei modi.Perdendo mia figlia, quando lei aveva 5 mesi, e dopo che per salvarla abbiamo tentato un trapianto di midollo da donatrice compatibile al 60%, io, e dopo che lei ha dovuto subire una pesantissima chemio terapia.E dopo che per due mesi nessuno la poteva sfiorare e di fatto viveva in una “bolla”sterile.
    Ho avuto un’altra bambina sana.E se la villocentesi avesse detto che non lo era?Potevo avere la facoltà, la libertà di non mettere al mondo una figlia per la sofferenza??
    Al di là di ogni ideologia, religione, morale e quant’altro rimane il fatto che se non c’è una legge gli aborti clandestini aumentano a dismisura, rischiando la di perdere sia la mamma che il bambino.
    Ci sono mille implicazioni e purtroppo i più non se ne rendono conto.
    L’aborto deve potersi fare, e nel modo meno traumatico possibile.
    Il senso di colpa è la società che te lo inculca.
    Una donna che decide di abortire non è un’assassina.Non lo fa con superficialità.Ma io ho l’impressione che nel nostro paese sia considerata un’assassina superficiale.
    Io ho nascosto la mia seconda gravidanza fino al 4 mese per non essere considerata tale qualora avessi deciso di abortire se il feto fosse stato malato.E in quel caso, a mio avviso,sarebbe stato un atto di pietà nei confronti di mia figlia.

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  7. Un intervento di D. lo stavo aspettando: lo auspicavo e se non fosse arrivato spontaneo, tra qualche giorno l’avrei contattata per averlo. Conosco il suo blog e sentivo che avevamo bisogno anche della sua voce.

    In realtà io mi sento molto vicina a quello che esprime D., ma non riesco proprio a trovare la conciliazione tra questo ed il mondo reale. Cerco di spiegarmi: una legge sull’aborto deve esserci, perchè questo non è un mondo perfetto e si deve dare una possibilità di scelta, o meglio una via d’uscita. Perchè ha ragione D., quando dice che non è mai una vera scelta.
    Avrei paura di una società che vieta l’aborto, ma ho paura anche di questa che lo propone come falsa scelta. Tanto più che le donne possono abortire, ma poi è meglio che conservino questa “colpa” per se stesse se non vogliono offrirsi al pubblico giudizio. Questa società lo ha reso possibile (anche se spesso male e con difficoltà), ma preferisce non accettarlo, continuare a ritenerlo una cosa cattiva, un male di cui non si può fare a meno.

    Allora, se è così (perchè in fondo E’ così: non una colpa o una cosa cattiva, ma una non scelta, troppo spesso dettata dal non avere scelta), che si offrano anche altre risposte. Che si offra la possibilità di non abortire. Quella, troppo spesso, manca.

    Di fronte alla malattia non riesco ad esprimermi. D. cita la sindrome di Down: conosco persone Down e personalmente posso dire che non mi verrebbe mai in mente di abortire per una diagnosi tale.
    Ma la sindrome di down è una tra mille. C’è altro. E per altro vorrei sempre avere la possibilità di dire: non ce la faccio.

    Questa non è una questione di ideologie e non è neanche questione di etica, di morale. Sì, l’etica e la morale sono di tutti, ma non credo che nessuna madre abbia mai scelto del proprio aborto con categorie mentali proprie dell’etica o della morale.
    Queste sono decisioni che si prendono li ed in quel momento. Con quello che hai: dolore, sconforto, rabbia, paura. Quando sei fortunata le prendi in due e si sommano due paure, due dolori.
    No, purtroppo non c’entra neanche la morale: c’entra il farcela o non farcela. C’entra quello che riesci a provare in quel momento, quando prendi la decisione.

    Però il punto di vista di D., ripeto, serviva: perchè cambiare punto di vista per vedere le cose da un altro lato, è sempre una ricchezza.

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  8. Il tema è incandescente: ho numerose esperienze di discussioni degenerate, sul web come nella vita. Però ci provo di nuovo.
    Vorrei solo suggerire qualche spunto: l’aborto secondo me va valutato, da parte di chiunque, non in funzione di ciò che “dice la religione” (a me interessa, ad altri no, quindi non se ne viene a capo), ma neppure di ciò che dice l’ideologia o il luogo comune: ci vorrebbe un uso robusto e non pregiudiziale della ragione.
    La valutazione di fondo è, dovrebbe essere, la seguente: chi sto eliminando? Cosa? Una vita umana? Altro? Un grumo di materia?
    Non chiedo una definizione medica (non sto parlando di cellule, embrioni, ecc…): chiedo una definizione morale. La morale è di tutti, mica solo dei credenti. No?
    E’ chiaro che se stiamo parlando di un essere umano, ci sono delle implicazioni serie.
    Quando si parla di obiettori di coscienza, prima di cercare i possibili opportunisti, bisognerebbe pensare a questo: per molti (religiosi e non), eliminare una vita in grembo vale quanto eliminarne una all’esterno dell’utero materno. Questo rende assolutamente impossibile, per costoro, effettuare tale pratica.
    Io ritengo che ogni definizione di vita che tenda a essere restrittiva (cioè un gradino meno che dal concepimento alla morte naturale), rischi di essere molto insidiosa.
    Insidiosa nel senso di una pratica anti-umana, spesso eugenetica (quanti aborti si effettuano in Italia per malformazioni vere o presunte? Quante volte si controlla dopo l’aborto l’effettiva presenza delle malformazioni diagnosticate?), che corre il rischio di anestetizzare le coscienze (ci sono statistiche terrificanti rispetto a quante donne ricorrono ripetutamente all’aborto…), che espone tutti al rischio di ulteriori definizioni ancora più restrittive. Già ora trovo che debba essere terrificante per una persona affetta da sindrome di Down o da altra malattia genetica sapere che la sua malattia è da molti ritenuto un motivo valido per non far nascere un bambino. Ma provate ad immaginare la definizione che si restringe (malattie più lievi, feti in fase più avanzata di formazione, bambini appena nati… non invento, parlo di pratiche presenti in vari paesi del mondo, tra cui alcuni “civilissimi” come l’Olanda o gli Stati Uniti)… poco alla volta la vita non è più una presenza oggettiva, reale, esterna alla nostra volontà, ma il frutto di una trattativa, di una definizione che cambia, che possiamo manipolare, che possiamo riscrivere all’infinito. Francamente, a me questo sembra un incubo.
    Molti obiettano che non so cosa significhi vivere con un bambino malato, che loro non se la sentirebbero: a parte il fatto che a me nessuno ha mai dato garanzie circa il fatto che i miei figli non si ammaleranno, so che in alcuni paesi del nord Europa, nei quali l’aborto è perfettamente legale, che prevedono però dei programmi molto efficienti di sostegno alle famiglie che scoprono di aspettare un figlio con malformazioni genetiche, l’aborto a causa della sindrome di Down, ad esempio, è molto meno frequente rispetto all’Italia. Quindi si tratta, ancora una volta, di cultura, di definizioni, di sostegno alla vita piuttosto che al suo contrario.
    Inoltre, e qui tocco quello che per me è uno dei nuclei del problema, ritengo che l’aborto sia una falsa libertà: una libertà lasciata alle donne, perché a fronte di situazioni terrificanti create da altri siano sempre “libere” di abortire. Qualcuno ha mai chiesto a chi ha abortito se non avrebbe preferito essere “libera” di non abortire?
    Quante donne sono davvero libere di NON farlo? Intendo dire, nelle condizioni sociali, culturali, economiche, in cui possono davvero dire: questa è la mia scelta?
    Quante donne invece vengono lasciate in balia di sé stesse, di un dolore lacerante, con la scusa che sono “libere” di scegliere?
    E con i nuovi ritrovati chimici questo avverrà sempre di più: come può essere spacciata per una conquista rimanere da sole a casa, avere crampi a volte molto dolorosi, a volte emorragie, vedere il… (come definirlo?) “prodotto del concepimento”? (Bambino?). Non è un ulteriore modo di dare alle donne una bella libertà che significa “sono fatti vostri”?
    Non dipenderà dal fatto che anche i medici abortisti non ce la fanno più? Spesso dopo anni di pratica sono orripilati. Continuano a vedere corpicini che escono dalle loro madri, da coloro che la natura aveva previsto come loro rifugio e nutrimento, per i motivi più disparati, dalla povertà estrema, alla malattia grave, alla leggerezza di un’adolescente, all’egoismo più ottuso. E lo fanno per giorni e settimane, anni. Avete mai letto loro racconti? Alcuni nel tempo sono diventati i più ferventi anti-abortisti.
    Allora meglio far credere che c’è una pillola semplice, nessuna domanda, nessun ricovero… che il peso stia ancora una volta sulle spalle delle donne.
    Per non parlare dell’uso orwelliano del linguaggio: “aborto terapeutico”. Ora, nella mia ottusità, ritengo che il termine “terapeutico” dovrebbe significare che si aiuta qualcuno a guarire, almeno a migliorare le proprie condizioni di salute, non certo che si elimina del tutto il soggetto.
    Possibile che le donne siano ferme a slogan di 30/40 anni fa? Che non vedano che sono state vittime di una truffa? Una truffa di cui portano i segni direttamente nel corpo e nella mente (nell’anima, per chi ci crede)?
    Non credo ovviamente che la soluzione sia solamente vietare l’aborto, dico invece che andrebbero davvero (non sulla carta) rimossi gli ostacoli che impediscono alle donne (e agli uomini, alle famiglie) di avere i figli che desiderano, e magari anche quelli che non desiderano ma che la vita ha concretizzato per loro.
    Siamo davvero sicuri che nella nostra società ci sia un clima culturale favorevole alla vita? O non sta dilagando una mentalità opposta, di egoismo e “diritti” a tutto: a non volere un figlio, a non volerlo ancora, a volerlo a tutti i costi… così che i desideri vengono eretti a diritti. Diritto a un figlio sano (e poi bello, intelligente, alto…?).
    In paesi come l’Olanda il perseguimento coerente di tali diritti ha portato alla costituzione di un partito pedofilo (ora, sembra, disciolto), alla legalizzazione dell’eutanasia anche sotto i 12 anni (in pratica la legalizzazione dell’omicidio)… possibile che non si veda che la vita è un bene di cui NON possiamo disporre. E’ un dato pregresso, precedente il nostro ragionamento e la nostra volontà, con ragioni proprie, da rispettare, non da forzare in canali disegnati a tavolino? Mi rendo conto che la mia posizione non è comoda, e neppure senza costi da sostenere, ma quale scelta è senza costi? Mi sembra solo che i costi della scelta opposta siano sostanzialmente più pericolosi.
    Per tutti vale un dato: dalle ricerche condotte tra madri che hanno seriamente preso in considerazione l’aborto, pare che a distanza di anni nessuna (o quasi) si sia pentita di aere tenuto il bambino, mentre tra coloro che hanno abortito sono spesso presenti sensi di colpa a volte tanto gravi da degenerare in depressione, malattie psichiche e suicidi. Mi pare la prova che l’aborto non aiuta né la madre né il figlio.

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  9. Purtroppo mi sembra che spesso chi si oppone all’aborto si opponga anche ai metodi di contraccezione, perché mirati a bloccare la procreazione. Di conseguenza anche la diffusione di politiche serie di prevenzione è spesso minata da questa impostazione ideologica.
    Peggio ancora la RU486, che per alcuni consentirebbe un aborto “facile” e quindi promuoverebbe la promiscuità…ancora colpevolizzazioni, chissà se ce ne libereremo mail.
    Non vorrei fare la vetero femminista, ma credo che la RU faccia paura a molti perché darebbe alle donne la possibilità di scegliere con meno condizionamenti e questo può essere un grosso problema.
    Ciao

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  10. Suppongo che neanche curare gli alluci valghi sia il massimo dell’interessante, eppure si fa. Considerare sacra una vita credo che vada al di là di concetti religiosi e faccia parte di una morale personale e così come è giusto che io possa scegliere di abortire è giusto che un dottore possa dire no. I due diritti per loro stessa natura vanno in conflitto e credo che in questo l’aborto farmaceutico in qualche modo possa portare a un equilibrio tra le parti. Quello però che mi aspetto da un medico obiettore è una coerenza con la sua scelta, perchè firmare un foglio dove ci si dichiara contrari ed essere attivisti nella contraccezione (magari nella ricerca di nuove soluzioni) in modo da diminuire il bisogno di aborti sono due cose molto diverse. Ma da troppi secoli i dottori vengono visti non al servizio dei pazienti, come dovrebbe essere, ma come semi-dei che possono permettersi di stare un gradino sopra di me.

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  11. Sì, confermo che in Lombardia essere non obiettori può gravemente ledere la carriera: Formigoni ha fatto molto per la nostra regione, ma purtroppo la sua lunga permanenza in carica ha consegnato le nostre strutture sanitarie a una determinata corrente di pensiero (neanche più di tanto legata alla politica, a dire il vero).
    Infatti la mia ginecologa, collaboratrice del San Matteo di Pavia, è cattolica non obiettrice, mentre suo marito, dipendente dello stesso ospedale, è obiettore.
    In più, metteteci che praticare aborti è, secondo i medici, una delle attività meno ambite proprio per il morale con cui lo si fa. Almeno, dicono, quando devi asportare un tumore c’è un lavoro di ricerca e la speranza che la paziente si salvi. L’aborto è solo dolore, e non è nemmeno professionalmente interessante.

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  12. Lorenza, in effetti l’obiezione di coscienza in questo campo è un istituto che ha provocato diversi disagi.
    E’ evidente che fu inserita nella legge per rispondere alla richieste della componente parlamentare cattolica, allora di maggioranza.
    C’è anche di peggio di quello che tu evidenzi: sono stati trovati medici obiettori che praticavano aborti in strutture private e oltre i limiti di tempo consentiti. Ma ovviamente si tratta di casi isolati (anche se essere obiettore è prevista come aggravante del reato di procurato aborto, quindi forse anche il legislatore ci aveva pensato).
    Per ora nessuna voce legislativa si è mai levata contro l’obiezione, mentre molte volte, da parte di chi opera nella sanità, è stato sollevato il problema della inoperatività di fatto del diritto di interrompere la gravidanza in certe strutture sanitarie. Ci sono ospedali anche in luoghi dove è difficilissimo raggiungere un altro ospedale, dove l’aborto non si può praticare perchè tutti sono obiettori.
    L’Italia continua ad essere il Paese delle buone leggi (alcune sono davvero degli esempi di lungimiranza e di garanzia) e delle pessime applicazioni, che ledono i diritti dei cittadini.

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  13. Ciao,
    personalmente concordo pienamente con l’importanza di avere una legge che regoli il diritto all’aborto e credo, anche se non sono un’esperta, che la legge 194 sia ben strutturata.
    Purtroppo però non credo che questa legge sia considerata fondamentale da tutti, da qui i tentativi per modificarla in senso peggiorativo. Il punto inconciliabile mi sembra il concetto che per la legge italiana l’embriore non è una persona mentre per la religione cattolica sì, quindi ha gli stessi diritti della madre.
    Un aspetto che non riesco a condividere della 194, forse non lo focalizzo bene, riguarda l’obiezione di coscienza.
    Ho visto un reportage ben documentato sulla regione Lombardia in cui molti medici asserivano di essersi dovuti dichiarare obiettori per non avere ostacoli in termini di carriera. Altri lamentavano che in alcuni ospedali di fatto non si praticano aborti, in quanto basta che uno dei componenti di turno dell’equipe sia obiettore e non se ne fa nulla. Questo spesso comporta ritardi che rendono l’aborto non praticabile.
    Non vorrei estremizzare troppo, ma non trovo giusto che un medico, che si impegna per la propria deontologia a curare tutti indipendentemente dalle condizioni economico-sociali-religiose, possa decidere di rifiutare una prestazione prevista dalla legge se questa scelta ha l’effetto di negare a un soggetto terzo un diritto (giusto o sbagliato) sancito per legge.

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